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L’Egitto visto da Israele: un muro di diffidenza?

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Nel gennaio del 2011 il generale Aviv Kokavi, appena nominato capo del servizio di intelligence delle forze armate israeliane, riferì alla Commissione esteri della Knesset che dall’Egitto e dall’Arabia Saudita ci si poteva aspettare un cambiamento politico, ma non un “cambio di regime”. La sua valutazione era che i Fratelli Musulmani fossero ancora troppo poco organizzati in Egitto, e la monarchia relativamente solida in Arabia Saudita.  Almeno sul fronte egiziano, le migliori analisi israeliane hanno sofferto degli stessi errori di percezione di quelle occidentali:  un cambiamento profondo è arrivato dalle proteste di piazza, anche in assenza di un’opposizione strutturata o di un programma politico alternativo. Questo dato è particolarmente significativo dato il ruolo-chiave del Cairo nell’intera architettura di sicurezza israeliana.

Egitto e Israele non hanno mai veramente inneggiato, in pubblico, a quel trattato di pace che li lega fin dal 1979, e anzi si sono spesso registrati malumori e polemiche da entrambe le parti negli anni di Mubarak – in particolare sulla questione dei tunnel scavati lungo il confine con Gaza e utilizzati per importare armi, materiali e militanti nella Striscia. Il Trattato però funzionava complessivamente, almeno nella prassi, con un regolare coordinamento tra le rispettive forze armate. Così, l’Egitto aveva accettato il transito nel Canale di Suez delle navi israeliane (armate di missili); Israele da parte sua aveva acconsentito ad alcune revisioni delle clausole del trattato sul terreno, come il dispiegamento di 750 poliziotti egiziani lungo il confine del valico di Rafah e il potenziamento delle unità militari di stanza nel Sinai, sopratutto in funzione anti-clandestini. Gerusalemme non aveva, però, mai accettato una revisione formale e aveva negoziato le eventuali richieste sempre a livello di organi di sicurezza, mai a livello di Ministeri degli esteri.

In realtà, fino al gennaio 2011 il problema principale tra i due Paesi non era quello della sicurezza in senso stretto e in termini militari, ma semmai  quello dei migranti e dei profughi che, fuggendo da Eritrea, Somalia, Etiopia e Sudan,  penetravano in Israele dopo una sosta in Egitto (Paese che ospita ben due milioni di rifugiati africani), con fenomeni anche di tratta degli esseri umani. E’ per rispondere a questi problemi e bloccare almeno il passaggio via terra che il governo israeliano aveva avviato, nel gennaio 2010, la costruzione di un muro separatorio lungo il confine con l’Egitto. Dopo la “rivoluzione di piazza Tahrir”, il progetto é rimasto ma ha cambiato obiettivo: ora i 240 km di muro, alto 5 metri, che correrà – una volta completato il prossimo ottobre 2012, con ben sei mesi di anticipo – da Rafah a Netafim, servono come “barriera difensiva naturale” rispetto a un mondo arabo in rivolta e, secondo molti osservatori israeliani, pericolosamente vicino all’anarchia. Il progetto va ad aggiungersi alle due barriere difensive già edificate al confine con il Libano e con la Siria (l’unico confine ancora sprovvisto di un muro divisorio rimarrà quello con la Giordania).

In effetti, dal Sinai provengono molti segnali preoccupanti: in particolare, l’esercito egiziano sembra incapace di intercettare e bloccare i traffici, di armi e persone, intrattenuti dai beduini della zona, di ostacolare e reprimere le infiltrazioni di militanti di al-Qaeda, d’intervenire in prevenzione degli atti di sabotaggio del gasdotto -attaccato per ben 8 volte, causando anche l’uccisione di militari egiziani- e, più in generale. In almeno un caso si è verificato un vero sconfinamento, quando lo scorso agosto un commando di terroristi è riuscita ad infiltrarsi in territorio israeliano e ha attaccato autobus di linea e auto private, totalizzando 10 morti.

Ma la minaccia non si limita al Sinai, e riguarda l’evoluzione complessiva del vicino egiziano. Alcuni episodi hanno destato attenzione: la visita di Goma Amin, rappresentante dei Fratelli Musulmani,  a Gaza in segno di solidarietà con Hamas il 29 ottobre; la manifestazione organizzata dai Fratelli Musulmani il 24 novembre, che spronava i fedeli delle moschee a organizzare ed animare una grande “battaglia contro la giudeizzazione di Gerusalemme” in occasione dell’anniversario del Piano di partizione delle Nazioni Unite; le parole dell’Imam Ahmed al-Tayeb, che ha accusato gli ebrei, tanto di Israele che della diaspora, di “cercare di minare l’unità egiziana ed islamica”.

La reazione in Israele è stata inevitabilmente negativa, soprattutto riguardo al peso crescente dei movimenti islamisti nella regione dopo la vittoria elettorale di An-Nahda in Tunisia. Anche tra i laburisti cresce lo scetticismo verso gli esiti della rivolta egiziana, e con esso la nostalgia per il vecchio regime. Ancora più netta la posizione dei partiti religiosi e della destra, come Israel Beitenu, per i quali “non è mai troppo tardi per correggere gli errori di Begin”, ovvero riprendersi il Sinai. In questo clima, diventa difficile per Israele apprezzare il ruolo obiettivamente costruttivo svolto proprio dalle autorità egiziane oggi al potere nel recente rilascio di Gilad Shalit.

In ogni caso, è ormai legittimo il quesito sul futuro del Trattato del 1979, o quantomeno di un suo emendamento per via negoziale: la posta in gioco è alta, perchè si tratta di mantenere le basi di un rapporto bilaterale che ha garantito la pace per trent’anni con benefici reciproci. In attesa di una risposta egiziana in merito, che probabilmente dovrà attendere l’esito del lungo percorso elettorale in atto, Israele continua a costruire la sua terza barriera difensiva al confine: tende così a chiudersi dietro un “muro di diffidenza” con tutto il mondo arabo, in cui ad oggi solo il Marocco, e in certa misura la Giordania, sembrano costituire felici eccezioni.