Con un tasso di disoccupazione all’8,5% (in dicembre) e un debito pubblico che ha ormai superato quota quindicimila miliardi di dollari, non è un caso che il Presidente Barack Obama abbia dedicato gran parte del proprio discorso sullo Stato dell’Unione all’economia. Lo ha fatto ponendo l’accento in particolare su una rinascita dell’industria manifatturiera e del ‘Made in America’.
A meno di dieci mesi dalle elezioni di novembre, mentre in casa repubblicana impazzano le primarie, il presidente ha colto l’occasione per difendere il proprio lavoro in questi primi tre anni alla Casa Bianca: ha voluto creare un ponte tra quello che è già stato fatto e quello che ancora rimane da fare, in un eventuale secondo mandato, per costruire “un’economia costruita per durare, dove il lavoro sodo paga e la responsabilità è premiata”. Il clima a Washington è però difficile: ormai da oltre un anno, i due partiti non riescono a trovare alcun accordo. Il discorso di Obama, anche se ricco di numerose proposte pratiche, ha probabilmente più valore come piattaforma elettorale che non come documento programmatico di governo.
La visione economica che ne è emersa è fatta di nuovi posti di lavoro in un settore manifatturiero ad alto contenuto tecnologico, di una forza lavoro istruita e preparata, di innovazione nel settore delle energie pulite. Riprendendo i temi della giustizia sociale e delle opportunità condivise, spesso sollevati negli ultimi mesi, il presidente ha anche sostenuto la causa di un sistema finanziario e fiscale più equo.
“Possiamo accontentarci di un paese in cui un numero sempre più limitato di persone stanno bene, mentre un gruppo crescente di americani arriva appena a fine mese”, ha dichiarato Obama martedì sera, “oppure possiamo ripristinare un’economia in cui a tutti è data un’opportunità, in cui tutti contribuiscono in maniera giusta, e in cui tutti giocano rispettando le stesse regole”.
Pur cercando di attaccare i repubblicani il meno possibile, il presidente ha posto l’accento sulle differenze ideologiche che lo distinguono dagli avversari. E ha persino fatto propri alcuni slogan dei rivali, nel tentativo di apparire bipartisan e, allo stesso tempo, di minare la retorica del rivale più temuto, Mitt Romney. “Non invidiamo il successo economico in questo paese”, ha detto, “lo ammiriamo”.
Infine, il presidente ha criticato, anche se in maniera non sempre esplicita, quella che ritiene un’opposizione eccessivamente dura. “Fino a che sarò presidente, lavorerò con chiunque in questa sala sia interessato a costruire su quello che abbiamo fatto”, ha dichiarato. “Ma ho intenzione di rispondere all’ostruzionismo con l’azione e mi opporrò a qualsiasi tentativo di tornare alle stesse politiche che ci hanno portato a questa situazione di crisi”.
Al centro della proposta di Obama è l’occupazione, che, nonostante una ripresa nelle ultime settimane, rimane il problema principale per molti elettori (con circa tredici milioni di americani ancora senza lavoro). Secondo il presidente, il governo federale può e deve sostenere una rinascita del settore manifatturiero (l’esempio citato è stato quello dell’industria automobilistica di Detroit che, sull’orlo del precipizio nel 2008, è ora tornata a crescere), innanzitutto ripensando l’attuale codice fiscale in modo da premiare le aziende che creano posti di lavoro in America e punire gli imprenditori che scelgono di portare i capitali all’estero. L’Amministrazione, ha poi spiegato Obama facendo riferimento agli accordi bilaterali di libero scambio da lui firmati con la Corea del Sud, la Colombia e Panama, deve inoltre aprire nuovi mercati ai produttori americani. Con un occhio alla Cina, però, che non rispetta le regole internazionali su sussidi statali e pirateria (un’evidente apertura al GOP, cui questo tema sta molto a cuore). Infine, in un’epoca storica dominata da nuovi settori industriali, conoscenze e tecnologie, bisogna tornare a formare i lavoratori americani, oltre che a incoraggiare il Congresso e gli stati dell’Unione a tornare a investire nell’istruzione primaria, secondaria e universitaria.
“I nostri lavoratori sono i più produttivi al mondo”, ha detto Obama, “e, se c’è parità di condizioni, vi prometto che l’America vincerà sempre”.
Secondo il presidente, il governo federale deve sostenere anche nuovi ambiziosi progetti infrastrutturali. “Prendete i soldi che non stiamo più spendendo in guerra”, ha suggerito il presidente ai membri del Congresso, “usatene metà per cominciare a ridurre il debito, e il resto per costruire questa nazione qui a casa nostra”.
In un cenno di assenso ai repubblicani, invece, Obama ha proposto di rivedere e semplificare le norme che regolano il settore privato. E ha fatto sua una posizione che fu di John McCain sulla questione dell’energia, difendendo una politica che sfrutti “tutte le possibilità a disposizione”, dal petrolio ai gas naturali alle fonti alternative, attraverso maggiori incentivi e minori sprechi.
Nella parte finale del discorso, Obama è tornato sulle radici della crisi (il comportamento eccessivamente rischioso dei grandi istituti finanziari e il collasso del mercato immobiliare) e sui “valori americani” di correttezza, trasparenza ed equità. Ha difeso le misure prese dalla propria amministrazione per meglio regolare il mondo dell’alta finanza (ad esempio la legge Dodd-Frank) e proteggere i consumatori (tramite il Consumer Financial Protection Bureau) e ha proposto di aiutare i proprietari di casa ancora in crisi a rifinanziare i propri mutui. Infine, Obama ha anche affrontato la questione di una riforma del codice fiscale che, eliminando detrazioni e esenzioni che avvantaggiano i redditi elevati, renda il sistema più progressivo. Ad esempio, ha suggerito il presidente, chiunque guadagna più di un milione di dollari l’anno paghi almeno un’aliquota del 30%.
“Potete chiamare questa proposta lotta di classe se volete”, ha poi incalzato. “Ma molti americani definirebbero solo buon senso l’idea di far pagare a un miliardario la stessa percentuale che paga la sua segretaria”. La segretaria in questione è Debbie Bosanek, che lavora per Warren Buffett (e sedeva addirittura a fianco della First Lady Michelle durante il discorso): è diventata celebre quest’estate quando il suo datore di lavoro si è lamentato di un sistema che gli permette di pagare, in percentuale, meno tasse di lei. E la questione dell’aliquota del 15% imposta sui redditi da capitale, tassati meno di quelli da lavoro, è tornata sulle prime pagine dei giornali negli ultimi giorni per via della vicenda delle dichiarazioni fiscali di Mitt Romney.
La lista delle richieste fatte dal Presidente Obama al Congresso nel discorso sullo Stato dell’unione è lunga e ambiziosa, ma la loro attuazione è quanto mai inverosimile, per varie ragioni. Nonostante la buona volontà, l’industria manifatturiera americana avrà bisogno di tempo per riprendersi considerata la competizione che viene oggi dai paesi in via di sviluppo. La riforma del sistema fiscale, per quanto necessaria, vede l’elettorato nettamente diviso e quindi sarà di difficile implementazione (secondo un sondaggio del New York Times, il 55% di repubblicani ritiene che il sistema attuale vada mantenuto mentre il 66% dei democratici, e il 55% degli indipendenti, vorrebbe che capital gain e dividendi fossero tassati agli stessi livelli del lavoro). La dura opposizione dei repubblicani a qualsiasi proposta che arrivi dalla Casa Bianca (destinata a indurirsi ulteriormente in tempi di campagna elettorale) rende improbabile che l’Amministrazione possa ottenere l’autorizzazione del Congresso a finanziare progetti nei settori dell’energia, delle infrastrutture, dell’educazione.
In questo senso, quello di Obama sullo Stato dell’Unione è stato un discorso di campagna elettorale più che di governo, che potrebbe trasformarsi in agenda legislativa soltanto se il presidente riuscirà a essere rieletto a novembre.