Nelle scorse settimane, l’Iran ha ripetutamente minacciato di chiudere lo Stretto di Hormuz, alimentando timori di una possibile recrudescenza di tensioni politiche e militari nel Golfo Persico. Le dichiarazioni bellicose si sono accompagnate a dimostrazioni di forza – un esercizio navale e nuovi test di missili balistici a medio raggio.
La tensione che riguarda una via marittima vitale per l’economia mondiale ha nuovamente alimentato i timori di guerra e di conseguenti aumenti vertiginosi del prezzo del petrolio, visto che il 20% delle risorse energetiche mondiali transita quotidianamente nello Stretto. I timori di un’escalation sono stati tali da indurre l’Amministrazione Obama a posticipare un esercizio militare congiunto con Israele da tempo in calendario, per evitare il rischio di un frainteso che Tehran avrebbe potuto utilizzare come pretesto per causare incidenti.
Tuttavia, le bellicose dichiarazioni iraniane non hanno né sostanza né credibilità. La retorica bellicosa in realtà riflette l’impotenza del regime di fronte all’embargo petrolifero occidentale che si sta stagliando all’orizzonte. Il bluff di minacce militari rappresenta un’implicita ammissione di quanto il regime tema l’arma per eccellenza di un pacchetto sanzionatorio occidentale.
L’Iran minaccia di chiudere Hormuz perché sa di poter essere escluso dal mercato del petrolio senza che, in realtà, si verifichi un aumento significativo dei prezzi nel lungo periodo. Persino un conflitto avrebbe un impatto trascurabile sui prezzi. Da tempo ormai i mercati hanno infatti scontato le tensioni nel Golfo e i rischi di un conflitto militare causato dalla minaccia regionale del programma nucleare iraniano. Persino compratori abituali del petrolio iraniano quali la Cina e l’India, pur non avendo alcun entusiasmo per un embargo del genere, stanno riducendo la loro dipendenza dal petrolio iraniano e cercando fonti alternative.
La capacità produttiva dell’Arabia Saudita potrà facilmente e rapidamente supplire l’ammanco di petrolio iraniano al mercato globale. L’eventuale tentativo di bloccare Hormuz da parte della Marina Iraniana avrà vita breve – le risorse iraniane in questo senso sono limitate e tutt’altro che formidabili. Nel frattempo, i produttori di petrolio sulla sponda araba del Golfo possono dirigere le loro risorse verso le rive del Mar Rosso attraverso gli esistenti oleodotti, in modo da aggirare lo Stretto.
In poche parole, Teheran non ha carte da giocare. L’economia iraniana dipende in maniera critica dalle esportazioni di petrolio. Gli Stati Uniti non acquistano petrolio iraniano e l’Europa ormai ha ridotto il consumo di petrolio iraniano a meno del 20% del suo fabbisogno. L’economia iraniana è fragile e in deterioramento – l’inflazione galoppante, la svalutazione del Rial, e la disoccupazione altissima sono tre esempi di problemi che Teheran non è più in grado di controllare e che rendono il governo molto vulnerabile in caso di attuazione di un embargo. Non solo l’economia ne soffrirebbe ulteriormente, ma l’impatto domestico potrebbe destabilizzare il regime scatenando proteste e malcontento sufficienti da ridar vita al movimento di opposizione interno.
La crescente repressione interna, le divisioni emergenti tra gli alti ranghi del potere, e la lotta senza quartiere ormai apertasi per le prossime elezioni parlamentari del 2 marzo, fanno sì che potrebbe crearsi la “tempesta perfetta” per la situazione politica nel paese, riversando milioni di cittadini nelle strade come era già avvenuto nel 2009 dopo la frode elettorale del regime.
Queste circostanze dovrebbero incoraggiare l’Occidente ad accellerare i preparativi per approvare e mettere in atto un embargo. Invece, sia Washington che Brussels esitano, sottovalutando forse il fatto che questa potrebbe essere l’ultima chance di fermare il cammino iraniano verso la bomba nucleare senza dover ricorrere alla forza militare.
Con le recenti sanzioni americane approvate a fine dicembre, l’Amministrazione Obama ha definito una tabella di marcia di nove mesi per colpire chi continua a comprare petrolio iraniano – un modo indiretto ma efficace di promuovere l’embargo. Tuttavia, la legislazione contiene importanti eccezioni e permette al presidente di concedere esenzioni a governi e imprese. Quanto all’Europa, l’attuazione del suo embargo dovrà in ogni caso attendere fino al 1° luglio.
Non bisogna far del meglio il nemico del bene, dicono gli inglesi. Dopotutto, fino a pochi mesi fa un embargo europeo appariva una misura politicamente impensabile. Ci sono anche comprensibili ragioni per un certo ritardo: i paesi maggiormente colpiti dall’embargo in Europa – Grecia, Italia e Spagna – sono gli stessi che soffrono maggiormente della crisi del debito e che quindi sono più fragili economicamente. In più la maggior parte dei contratti è stata firmata per il 2012 (l’ENI, ad esempio, si sta facendo ripagare un debito di 2 miliardi di euro con il greggio iraniano). Un ritardo di sei mesi per consentire alcuni aggiustamenti e l’individuazione di risorse alternative avrebbe senso se l’embargo fosse stato approvato già anni fa o anche l’anno scorso. Ma ormai, arrivati al punto attuale nel 2012, il tempo stringe per fermare l’atomica iraniana.
All’inizio di gennaio l’Iran ha nuovamente accellerato le sue attività nucleari, attivando la centrale sotterranea per l’arricchimento dell’uranio a Fordow, vicino a Qom, e confermando che procederà ad arricchire l’uranio al 20% – un salto qualitativo nella corsa alla bomba. Lo scorso novembre, il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica aveva poi rivelato le dimensioni militari del programma. In breve, siamo in presenza di ulteriori prove di quanto l’Iran si stia avvicinando l’Iran al traguardo, mentre rende le componenti critiche del programma sempre meno vulnerabili a un attacco aereo.
Aspettare fino a luglio per l’embargo potrebbe insomma finire con il rendere vano ogni tentativo pacifico di fermare il programma nucleare: ciò a sua volta rende lo scenario di uno scontro militare nel Golfo Persico più probabile e imminente.