Il nuovo attacco all’Europa che ha colpito Parigi ci costringe a ragionare sul legame tra il terrorismo e le radici profonde del conflitto in cui siamo tutti coinvolti – magari senza saperlo o volerlo vedere. Da un’analisi che forse sta finalmente prevalendo, non solo in Francia, potrà scaturire una decisione di grande portata sull’uso della forza. Una decisione che riguarderebbe anche l’Italia.
I terroristi dell’ISIS fanno spesso riferimento all’eredità della storia: dalle crociate al colonialismo, dalle conquiste dell’Islam a una visione pre-moderna e anti-democratica della società. Un passo necessario è a questo punto recuperare certi elementi essenziali, ma spesso dimenticati, dell’eredità storica dell’Occidente. Non si tratta solo di valori civici, diritti tutelati dalla legge, Carte costituzionali; si tratta anche della modalità in cui difendere attivamente questi cardini della convivenza civile. E la forza militare ha sempre avuto un ruolo importante in tal senso, che ci piaccia o no.
In qualche modo, un’eco di questa consapevolezza c’è già in alcune delle prime parole del presidente francese Hollande dopo l’attentato del 13 novembre: “non avremo pietà per i barbari dello Stato Islamico”. Non è stato solo la retorica emotiva del momento a ispirare un’espressione del genere; è anche il riemergere di una parte della nostra storia comune in quanto europei, con le nostre profonde e complicate radici.
Il problema è che non possiamo accettare una sorta di militarizzazione interna delle società occidentali – oltre ad ulteriori sacrifici della privacy che certamente dovremo comunque tollerare – perché sarebbe come rinunciare del tutto ai nostri modi di vita. Per evitare quello scenario non resta che colpire la testa del mostro, invece di concentrarsi sui tentacoli. La “testa” è un obiettivo sfuggente, ma di cui conosciamo almeno la collocazione geografica di massima: oggi, il territorio siriano-iracheno. I mandanti o comunque le fonti di spirazione degli attentati di Parigi, come di altri prima, si aggirano assai probabilmente in quelle zone. E in ogni caso l’epicentro dell’azione politico-militare dell’ISIS è per ora collocato lì. Logico dunque colpire duramente quell’epicentro, come finora non abbiamo davvero fatto, collettivamente e con continuità.
Forse paradossalmente, siamo a questo punto quasi costretti ad accettare in pieno l’impostazione adottata dai nostri nemici: veniamo attaccati in patria per i nostri (finora assai limitati) interventi in Siria, in Iraq e altrove nella regione – la Francia, con gli Stati Uniti e altri paesi, sta conducendo operazioni aeree in Siria, ma una coalizione simile, che include l’Italia, sta operando in Iraq. In pratica, una forma di coinvolgimento limitata e inefficace ci ha attirato comunque l’ira violenta dei nemici. Sono nemici che palesemente non rispettano il valore della pace e la vita, e che attirano adepti grazie alla loro capacità di esercitare la forza. Dunque, tale capacità va eliminata, o ridotta ai minimi termini.
Si tratta anche, in questo modo, di sfruttare al meglio un nostro punto di forza – la capacità militare in battaglia che può fare leva sulla superiorità organizzativa, tecnologica, ed economica. Un po’ come gli opliti greci di circa duemilacinquecento anni fa, i cittadini europei (e naturalmente americani) di oggi sono in grado di usare la forza con grande efficacia, se disposti a rischiare tutto e se inquadrati in modo opportuno. Ma l’obiettivo è vincere più rapidamente possibile e tornare alle proprie case. L’efficacia di questa concezione bellica sta proprio nella volontà di rendere lo scontro relativamente breve, e dunque per quanto possibile frontale e decisivo. La tecnologia odierna produce ovviamente tattiche operative ben diverse da quelle della Grecia classica, ma la logica che ispira l’impiego dello strumento militare non è radicalmente diversa. Non vogliamo farci logorare da agguati, guerriglia e atti di pirateria, bensì far valere la nostra migliore organizzazione, e la coesione sociale che in ultima analisi favorisce una democrazia rispetto a regimi oscurantisti.
Purtroppo, questa visione della guerra non è certo propizia ai grandi progetti di “ricostruzione” e gli sforzi di “stabilizzazione”, perché l’obiettivo preponderante è distruggere, non costruire. La fase positiva in cui proporre un modello positivo (comunque senza farsi troppe illusioni) arriverà, ma non è ora.
Fatte queste premesse, si deve porre un quesito pratico: come usare al meglio la forza, ammesso che si raggiunga realmente un consenso ampio sugli obiettivi generali e lo strumento militare? Non basta infatti decidere di colpire ISIS (soprattutto con azioni sporadiche da parte di singoli Paesi), visto che la situazione in Siria e Iraq è notoriamente complessa e intricata, essendovi molti gruppi armati in aperto contrasto tra loro ma anche “contigui”, cioè con frequenti travasi di combattenti dall’uno all’altro. E naturalmente una schiera di attori esterni, dall’Iran all’Arabia Saudita e gli Emirati, dalla Turchia alla Russia, che sostengono attivamente una delle parti in causa, alimentando il conflitto che a sua volta attira reclute all’ISIS – e non solo all’ISIS. È chiaro insomma che serve una strategia e non soltanto una tattica o una pura scelta “ideologica”.
La strategia possibile è inserirsi nella guerra durissima che è già in corso dal 2011 anzitutto per cambiare gli equilibri sul terreno: le potenziali reclute di ISIS dovranno vedere in televisione e sulle chat che il movimento islamista viene sconfitto sistematicamente sul campo di battaglia, cioè che non è una formazione diversa dai tanti gruppi e gruppuscoli che si sono avvicendati negli anni. Intanto, i movimenti antagonisti rispetto a ISIS (molti dei quali comunque islamisti e radicali) dovranno essere convinti, dalle armi occidentali, che non c’è possibilità di controllare vaste aree geografiche per più di pochi giorni e di sfruttarle come “bottino”. Il messaggio dovrà essere semplice: se gli europei e gli americani appoggiano una parte in causa, essa prevale in battaglia e gode di un sostegno duraturo, anche finanziario.
Inoltre, altre potenze già direttamente coinvolte in Siria e Iraq, come Iran e Russia, hanno interessi parzialmente compatibili con i nostri; non a caso, dopo le settimane di bombardamenti che tanto hanno fatto scalpore, Putin si è seduto al tavolo dei negoziati di Vienna. E ha ammesso che in fondo il suo alleato Assad a Damasco non è indispensabile se si trova una qualche soluzione condivisa per il paese.
Una scelta complessiva di questo genere, che parta da un più consistente uso dello strumento militare aereo, può realmente cambiare il corso del conflitto e conquistarci il prezioso aiuto sul terreno di alcuni gruppi locali, finora giustamente scettici sulla serietà dell’impegno occidentale. E può convincere molti belligeranti a venire anch’essi al tavolo delle trattative per evitare di restare isolati e un giorno esclusi del tutto dalla gestione del potere.
Sono linee generali di un piano ovviamente ambizioso e costoso in termini di risorse; ma se qualcuno ha idee migliori, si sarebbe fatto avanti già prima d’ora. E purtroppo restare “per metà” fuori dalla mischia non ha protetto Parigi né proteggerà il resto d’Europa.
La guerra è sempre una tragedia; ma se l’alternativa è un conflitto sanguinoso e strisciante per le strade, le piazze, gli aeroporti, gli stadi delle città europee, allora la guerra diventa una tragedia probabilmente accettabile per chi è in grado di vincerla. Le chiameremo operazioni militari per colpire i mandanti, gli organizzatori, le menti e i finanziatori dell’ISIS… eppure per molti versi sarà una guerra non troppo diversa da quelle che combatterono gli spartani di Leonida o gli ateniesi di Temistocle. Come noi oggi, i greci di allora si ritenevano portatori di una civiltà dei diritti e della ragione, non solo della forza; erano però disposti a usare tutti i mezzi per difendere la loro libertà.