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Guerra, quale guerra?

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È una strana guerra quella in cui siamo impegnati; perché, al di là delle considerazioni semantiche, di guerra si tratta. Il linguaggio del Califfato è apocalittico prima ancora che religioso; ciò lo rende difficile da interpretare sul piano razionale, ma efficace per menti confuse o perturbate. Vuol dire anche che il nemico non si fermerà di fronte a nulla. Ricorda l’Europa alla fine del primo millennio, o le orde di flagellanti che durante la peste nera percorrevano il continente annunciando il castigo divino massacrando ebrei al passaggio. Possiamo essere in guerra con l’Apocalisse? Sì se dietro il linguaggio c’è un disegno politico.

Non è una guerra fra l’Islam e la cristianità. Se così fosse, i nostri nemici non avrebbero scelto Parigi, capitale del paese meno cristiano del continente, esplicitamente indicata come simbolo di peccato e perversione. Il conflitto riguarda in primo luogo il mondo mussulmano: sciiti contro sunniti e questi ultimi fra di loro. Alcuni lo paragonano alle guerre di religione che insanguinarono l’Europa all’alba dell’era moderna; è latente da secoli e rimase solo sopito durante il lungo predominio ottomano e la breve epoca coloniale. Inoltre c’è un conflitto con l’Occidente che non riguarda l’intero mondo mussulmano ma solo alcune frange più radicali e, almeno fino a tempi recenti, l’Iran. Non potremo mai affrontare in modo efficace il conflitto che ci riguarda più direttamente se dimentichiamo che esso è intimamente legato a quello inter-mussulmano ed è a esso funzionale.

Fin dai primi passi di Daesh, è stato comunemente ammesso che la differenza con Al-Qaeda era strategica. Che si trattasse di passare da New York, Londra o Madrid, oppure di stabilire una base territoriale in Mesopotamia, l’obiettivo era comunque lo stesso: l’egemonia del mondo mussulmano. Gli attentati di Parigi sembrano indicare che le due strategie si sono saldate. La guerra all’Occidente ha probabilmente tre obiettivi. In primo luogo, spaventarci, dividerci e impedirci di intervenire sul terreno. In secondo luogo, allargare il consenso presso le masse mussulmane trasformando in odio il risentimento verso l’Occidente, alimentandolo con riferimenti storici (le crociate), con il ricordo dell’epoca coloniale e di errori più recenti. Terzo, perseguire lo stesso obiettivo presso i mussulmani stabilmente residenti in Europa, giocando anche sull’alienazione che deriva dalla difficoltà di accettare la nostra cultura e dal risultato spesso deludente delle politiche d’integrazione. Analogo obiettivo ha del resto l’odio specifico verso Israele, alimentato dalla diffusa simpatia per la causa palestinese.

Il primo obiettivo è illusorio e potrebbe rivelarsi per loro fatale. Come dovettero imparare a loro spese Hitler, Mussolini e il generale Tojo, le democrazie decadenti, inefficienti e adagiate nel consumismo hanno una sorprendente capacità di reazione se sono minacciate. Il problema che ci poniamo non è se reagire, ma come farlo. Sappiamo che lo sforzo aereo da solo non basterà, ma siamo comprensibilmente riluttanti, per ragioni legate al passato recente, a impegnare truppe di terra. Probabilmente, dovremo farlo e spetta ai militari suggerire i modi; ma questi non agiranno senza un segnale chiaro da parte dei politici. La vera difficoltà risiede negli instabili equilibri della regione; gli attori sono molteplici.

Anzitutto ci sono i nostri presunti alleati: la Turchia, l’Egitto, gli Emirati, l’Arabia Saudita. I loro regimi possono non piacerci, ma il loro apporto è indispensabile. Ognuno di essi persegue obiettivi propri, spesso contraddittori e il loro atteggiamento verso il terrorismo è a dir poco ambiguo. La nostra capacità di influenzarli è limitata e non solo, come pretende una vulgata populista, per interessi economici che pure esistono e di cui non dobbiamo vergognarci. Comunque non possiamo farne a meno, soprattutto perché sono tutti sunniti, proprio come Daesh che in realtà li vuole distruggere più di quanto voglia colpire noi; se contribuissimo alla loro destabilizzazione, l’alternativa sarebbe ancora peggiore. Poi c’è Israele, il nostro alleato più importante ma anche il meno facilmente influenzabile.

Inoltre c’è l’Iran, la grande potenza sciita. Troppi sembrano dimenticare che è stato fino a tempi recenti un nemico dichiarato e finanziatore di terrorismo. Siamo ora in una fase di lenta e difficile distensione, ancora impregnata di diffidenze reciproche. D’altro canto sappiamo che sarà impossibile riportare nella regione un minimo di stabilità senza il concorso dell’Iran.

Infine c’è la Russia. Viviamo con essa, per i noti motivi, un periodo di tensione in Europa. Ciò non dovrebbe impedire di collaborare su altri fronti, come si è visto proprio nei negoziati nucleari con l’Iran. Tuttavia gli obiettivi di Mosca in Medio Oriente sono oscuri e non è detto che siano compatibili con i nostri. Fino a oggi, più che a combattere il terrorismo sembra interessata a guadagnare posizioni sul terreno e dividere l’Occidente.

Come se non bastasse, i due Stati che fanno parte del teatro di guerra, la Siria e l’Iraq possono da molti punti di vista essere considerati “Stati falliti”, ma accettare la loro dissoluzione aprirebbe un vaso di Pandora dalle conseguenze incalcolabili. I negoziati di Vienna sul futuro della Siria sembrano dare segnali incoraggianti, ma è certamente illusorio credere che siamo alla vigilia di una nuova “pace di Westfalia”. Il massimo che possiamo sperare è che i vari attori accettino di perseguire obiettivi meno incompatibili. Più difficile sarà influire sui nostri riluttanti alleati; per esempio sostenere i curdi senza far esplodere la Turchia, ottenere che le monarchie del golfo cessino di sostenere gruppi terroristi in funzione anti-sciita, creare consenso sul futuro della Libia. Ancora più arduo, sarà chiarire i termini del coinvolgimento di Russia e Iran. Tuttavia, senza progressi sul piano politico anche un più grande impegno militare avrà effetti limitati. Ogni passo metterà a prova una già fragile unità dell’Occidente.

Perfino più arduo è il fronte interno e ciò riguarda in primo luogo l’Europa. Possiamo dare per scontato che quanto è successo rafforzerà la collaborazione fra gli apparati di sicurezza. Dovremo anche accettare qualche limitazione in più delle libertà individuali. Ammettere lo stato di guerra è indispensabile anche per rafforzare la consapevolezza dei cittadini e, come ha spiegato Hollande, dare alle autorità mezzi più efficaci per intervenire. Ma non sono questi i due problemi principali. Il vero pericolo è che il nemico vinca rispetto al suo principale obiettivo strategico: estendere il consenso fra i mussulmani residenti in Europa. Noi italiani ricordiamo che le brigate rosse furono battute con la repressione, ma anche perché si riuscì a evitare che si allargasse intorno a esse l’area della complicità passiva e del consenso potenziale. Anche se può sembrare generico e velleitario, non ha torto chi sostiene che la prima sfida è culturale. Ripulire le moschee infette, evitare che le prigioni restino i principali luoghi di reclutamento, accrescere in generale lo sforzo d’integrazione e di educazione richiederà determinazione e risorse. Il consenso all’interno delle nostre società è confuso e fragile e i populisti xenofobi guadagnano terreno. Nel dibattito pubblico, troppo spazio è occupato dagli estremisti del rifiuto come del buonismo senza condizioni. Accanto alla tentazione di pensare che siamo in guerra con l’Islam, dobbiamo anche combattere una certa tendenza a credere che “sia tutta colpa nostra”. Dobbiamo certo riflettere e imparare dagli errori compiuti (per esempio la guerra in Iraq), ma non siamo responsabili di ciò che sta succedendo. L’Europa non può e non deve passare i prossimi decenni a scusarsi per un breve periodo coloniale.

Il pericolo più grave che corre l’unità degli europei è il legame che inevitabilmente si stabilisce fra la minaccia terrorista e la crisi migratoria. Che fra le centinaia di migliaia di rifugiati che premono alle nostre porte si possa infiltrare qualche terrorista, è un pericolo reale. Bisognerà sicuramente rafforzare i controlli, ma ciò non deve farci dimenticare che il nemico è già in casa; la maggior parte dei terroristi sono nati e cresciuti qui. Tuttavia la demagogia rischia di far presa. Quella di accordarsi su una comune politica migratoria è forse la sfida più difficile da quando esiste l’UE. Se questo sforzo fallisse, nessun paese membro a livello nazionale riuscirebbe magicamente a fermare l’ondata migratoria, ma potrebbe intanto frantumarsi l’Europa, con gravissime conseguenze anche per la volontà di collaborare sul fronte della sicurezza. Esattamente ciò che vuole il nemico.