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Lo stallo diplomatico in Siria e le mediazioni fallite

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Nonostante gli auspici della comunità internazionale, il piano di pace concordato da Kofi Annan con Bashar al Assad e gli oppositori siriani non ha resistito neppure un giorno dalla sua entrata in vigore il 12 aprile. Intanto, sotto l’egida delle risoluzioni 2042 e 2043 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, un team di oltre trecento osservatori esterni (dopo quello inviato dalla Lega Araba lo scorso gennaio) sarà dispiegato in Siria, con il compito di “sorvegliare il mantenimento del cessate il fuoco”.

Sono in pochi a credere però in una reale volontà e capacità delle due parti di rispettare il cessate il fuoco, una prima misura di confidence-building che presuppone una qualche volontà di accettare compromessi e un ruolo della comunità internazionale nel farsi garante super partes. In effetti, sul terreno, i combattimenti tra le due fazioni (pur con intensità variabile) non si sono mai del tutto interrotti; e la ripresa dei bombardamenti nelle regioni ribelli di Homs e di Idlib conferma la volontà del regime siriano di non abbandonare la strategia della repressione. Fino ad oggi, la fedeltà e l’efficacia dell’esercito e del Mukhabbarat (i servizi di intelligence) ha consentito a Bashar al Assad di avere la meglio sui suoi detrattori nazionali e internazionali.

Il piano di pace, salutato in origine come la prima concreta soluzione alla guerra civile siriana, rischia così di diventare l’ultimo e più grave fallimento della comunità internazionale di mediare efficacemente con Assad. In alcune capitali europee, e non solo, si è pensato che l’adesione russa e cinese al nuovo piano avrebbe indebolito il sostegno alla repressione tra gli stessi membri del regime, rendendo possibile almeno un congelamento della situazione.

Il nuovo piano di pace presenta però un elemento di forte contraddizione: se infatti da un lato Kofi Annan – emissario congiunto di ONU e Lega Araba – sta trattando direttamente con le autorità di Damasco, la maggior parte degli attori che lo appoggiano sembra concepire il piano come un passaggio per estromettere Assad dal potere. Ogni riferimento al “cambio di regime” è stato eliminato dai sei punti del piano, accettando dunque la precondizione imposta dal regime per cessare le ostilità; ma ben pochi riconoscono all’attuale governo una piena legittimità politica. 

La contraddizione è, d’altra parte, ben evidente nello scarto tra il contesto multilaterale in cui il tentativo diplomatico ha preso forma e l’atteggiamento unilaterale di alcuni stati cruciali nella partita siriana: è evidentemente il caso dei paesi del Golfo, che detengono una posizione egemonica in seno alla Lega Araba. Il ruolo di leadership è stato assunto da Arabia Saudita e Qatar, che hanno più volte invocato un intervento esterno e sostengono militarmente e finanziariamente la resistenza armata all’interno del paese e il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), una coalizione che rivendica da mesi il riconoscimento internazionale come “unica legittima autorità dello stato siriano”. Ryad ha inoltre promesso di finanziare un fondo istituito per salariare i combattenti.

Dal canto suo, la Turchia ha offerto direttamente ospitalità al CNS sul proprio territorio. La via della mediazione non sembra quella preferita da Ankara: un cambio di regime a Damasco sarebbe, infatti, l’unico modo con cui la Turchia potrebbe riacquisire il suo principale alleato nel mondo arabo – un’opzione ormai non percorribile con la persistenza di Assad al potere. Poche settimane fa, a seguito delle continue violazioni della frontiera da parte delle forze del regime, Ankara ha perfino minacciato di invocare l’articolo 5 del trattato NATO, che costringerebbe la comunità atlantica a prendere posizione in modo diretto.

Ma c’è anche un secondo elemento di criticità che può minare il Piano Annan, e riguarda il sostegno all’opposizione: i membri dell’Esercito Siriano Libero (ESL), il braccio armato della resistenza che punta rovesciare Assad, pur essendo appoggiati dal Golfo e considerati “eroi” da Erdogan (come esplicitato dal premier turco nell’ultimo meeting degli “Amici della Siria”, tenutosi a Istanbul il 31 marzo), non suscitano lo stesso entusiasmo presso tutti i membri della comunità internazionale. Essi portano avanti una lotta di liberazione dal carattere fortemente settario, ispirata da una sorta di “riscatto sunnita” nei confronti di decenni di dittatura alawita (dunque sciita) e fanno temere che un eventuale regime change sostituisca al governo laico di Assad una dirigenza islamista.

I Fratelli musulmani, d’altra parte, hanno già una posizione dominante sia all’interno del CNS sia nelle fila dell’ESL – ed è degno di nota che quest’ultimo si sia strutturato in battaglioni che portano i nomi sacri dell’Islam. Se tale scenario non è sgradito né alla leadership saudita né alla dirigenza turca, esso non convince tuttavia gli Stati Uniti e l’Europa che, infatti, pur sostenendo il CNS, non l’hanno mai voluto riconoscere come sola e legittima autorità politica siriana.

In questa situazione di forte incertezza, le immagini di Kofi Annan seduto accanto a Bashar al Assad, diffuse in occasione della firma dell’accordo (che, come detto, è stato sostanzialmente violato), confermano visivamente che ad oggi non esiste una via diplomatica chiara e realmente condivisa da tutti gli attori coinvolti. Fintanto che l’esercito siriano – il più forte di tutto il mondo arabo – continua a sostenere Bashar al Assad, l’unico fattore che potrebbe alterare l’equilibrio interno è in realtà un’azione militare esterna, di cui nessuno sembra però pronto a farsi carico. Prolungare l’impasse politica rimanere quindi – per ora – la soluzione preferibile per tutti.