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Lo spazio pubblico egiziano che si restringe: governo vs società civile

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Oggi quasi tutti i giornalisti che lavorano in Egitto sanno che è tornato il tasrih, il permesso mensile rilasciato dal Ministero degli Interni ai reporter senza il quale è vietato soprattutto riprendere filmati nel paese. Nel corso della rivoluzione iniziata il 25 gennaio 2011, il tasrih era scomparso, di fatto, dalla macchina burocratica del governo. La sospensione di questa e di altre restrizioni aveva creato un terreno potenzialmente fertile alla nascita del giornalismo indipendente. La sua reintroduzione è invece la prova della campagna in corso per restringere lo spazio pubblico egiziano. Una campagna che va ben oltre i mezzi di informazione.

Tra gli obiettivi della nuova operazione di controllo c’è in primis la società civile, il cui futuro dipende dalla nuova legge – ancora non in vigore – sulle Organizzazioni non governative, annunciata a giugno e definita da 29 Organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani una “flagrante violazione della Costituzione e degli obblighi internazionali”. La proposta di legge imporrebbe una maggiore vigilanza da parte del governo, attraverso un Comitato di coordinamento con potere di veto sulle attività e sulle finanze delle ONG, nonché pene più severe per coloro che non sono conformi alle normative. Progetti di legge simili erano già stati proposti sia dall’ex Presidente Hosni Mubarak nel 2010 che da coloro che hanno governato dopo di lui (il Consiglio Supremo delle Forze Armate nel 2012, il deposto Presidente Mohamed Morsi nel 2013 e il successivo governo ad interim alla fine del 2013). Nessuno disegno però era così restrittivo come quello attualmente sul tavolo. Questa volta, tra i membri del Comitato di coordinamento ci sarebbero sia rappresentanti del Ministero dell’Interno che membri dell’apparato di sicurezza. Oltre a nuove e più rigide modalità di registrazione, le ONG vedrebbero ristrette le loro attività e le possibilità di ottenere finanziamenti, soprattutto dall’estero. Secondo Human Rights Watch, la legge in discussione imporrebbe a quanti si occupano della difesa dei diritti umani di chiedere il permesso di operare a coloro che abusano di tali diritti.

A preoccupare la società civile è anche la legge sulle manifestazioni, promulgata lo scorso novembre, che garantisce al Ministero dell’Interno ampi poteri discrezionali sulle proteste e individua diverse circostanze in cui i manifestanti violano la legge, dando alle forze di sicurezza briglia sciolta contro i manifestanti. Da quando questa norma è entrata in vigore, si è registrata un’impennata nei numeri di arresti di attivisti e dissidenti – solo alcuni dei quali sono islamisti. In risposta a queste misure è iniziata una campagna di sciopero della fame – dentro e fuori dal carcere – per protestare contro la legge.

Dopo la morsa sulle manifestazioni, il governo ha cercato di regolare e controllare anche l’attività politica all’interno delle università. Numerosi campus hanno modificato i regolamenti interni, prevedendo la sospensione di dipendenti che incitano la violenza, partecipano a manifestazioni all’interno dell’Università e appartengono a organizzazioni estremiste. È bene ricordare che nel contesto attuale parole come “estremisti” e “terroristi” sono sempre più utilizzate per descrivere coloro che non esprimono sostegno al nuovo regime. All’Università del Cairo – da sempre epicentro di manifestazioni anti-governative, anche di matrice islamista – le manifestazioni sono del tutto bandite. Qui, come altrove, saranno impiegate agenzie di sicurezza private per contenere l’eventuale violenza che potrebbe scatenarsi qualora scoppiassero proteste. Oltre a queste misure pratiche di contrasto, il controllo capillare si estende anche al sistema dell’istruzione nel suo complesso. Attraverso il decreto presidenziale del 15 giugno, il Presidente Abdel Fattah al-Sisi ha emendato la legge che regola le università, stabilendo che la nomina dei rettori universitari è una prerogativa che spetta al Presidente della Repubblica. Prima della riapertura delle scuole, proprio nello stesso giorno in cui il Consiglio di Stato ha annunciato la messa al bando di altri due canali televisivi islamisti, il Ministero dell’Istruzione ha poi pubblicato una guida rivolta agli insegnanti sui valori e l’etica da trasmettere agli studenti.

Il controllo capillare del regime si estende anche ai luoghi e alle pratiche religiose. Sotto la guida di Mohamed Mokhtar Gomaa, capo dell’organismo incaricato di sovrintendere gli affari religiosi, sono state adottate una serie di misure atte a porre fine ad attività religiose che possono influenzare la vita politica del paese. Negli ultimi mesi, il governo ha rafforzato la sua presa sulle moschee, chiudendo le più piccole, proibendo ai predicatori non certificati di parlare dai pulpiti e controllando i sermoni della preghiera comunitaria del venerdì. L’obiettivo di queste politiche è quello di rafforzare il controllo statale sulla sfera pubblica, ma queste misure potrebbero, paradossalmente, portare alla nascita di una sfera religiosa parallela che sfugge al controllo delle istituzioni statali, creando uno spazio in cui i gruppi radicali estremisti potrebbero organizzarsi per diffondere le loro idee e reclutare nuovi membri.

Viste le difficili condizioni economiche in cui si trova, l’Egitto avrebbe bisogno del contributo dell’intera società per superare la crisi e iniziare un percorso che miri a includere le diverse anime del paese: tutte quelle anime che nel 2011 sono scese in strada contro un regime che le aveva escluse da dinamiche socio-politiche. Spogliando gli egiziani del loro ruolo di protagonisti nelle loro comunità non si va affatto in questa direzione. Senza una sfera pubblica sana e aperta che permetta ai cittadini di essere tali e non sudditi, il distacco dalle istituzioni potrebbe aumentare, come la rabbia degli esclusi che rischia di non trovare altro spazio per esprimersi se non la piazza – o, peggio ancora, la clandestinità e l’estremismo.