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La transizione costituzionale tunisina e le future elezioni: passi verso la stabilità?

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La transizione costituzionale in Tunisia si è conclusa nel gennaio del 2014 con l’adozione della nuova Costituzione. Il testo, approvato da 200 deputati su un totale di 216 (con 4 astensioni e 12 voti contrari) ha riunito attorno a sé un largo consenso sia all’interno dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) sia tra i membri della società civile.  

Le elezioni del 2011 avevano sancito la vittoria del fronte composto dal partito islamico moderato Al-Nahda e dai due partiti liberali Ettakatol e Congresso per la Repubblica (CPR). Oltre a detenere la maggioranza dei seggi nell’ANC, questo blocco, detto la Troika, ha ricevuto l’incarico di governare il paese durante la fase transitoria. Facendo leva sulla legittimità elettorale ricevuta, la Troika ha occupato tutte le posizioni apicali delle istituzioni. Altri partiti come Al-Masar di Ahmed Brahim, il Partito Repubblicano di Najib Chebbi e la sinistra del fronte popolare, guidata da Hamma Hammami, hanno svolto un forte ruolo di opposizione durante la redazione della nuova carta costituzionale. Nonostante questi partiti non abbiano un radicamento molto ampio, la loro presenza è stata fondamentale per rappresentare gli interessi di quella parte della società tunisina che si rispecchia nella laicità. Il blocco ha permesso, infatti, di controbilanciare le forze della Troika; per ovviare alla sua eccessiva debolezza, dopo l’elezione dell’ANC, nel giugno del 2012, è stato formato il partito Nidaa Tunis guidato dal veterano della politica Beji Caid Essebsi.

In tal modo l’arena politica tunisina, che all’inizio della transizione contava centinaia di nuovi piccoli partiti, si è assestata attorno a due poli maggioritari: l’uno, rappresentato dalla Troika, portavoce dei valori islamici, mentre l’altro, rappresentato da Nidaa e dai suoi affiliati, esprime un nazionalismo che si rifà alla tradizione del riformismo tunisino del XX secolo e, ovviamente, al padre della patria Habib Bourghiba.

Il fattore identitario ha rappresentato un tema centrale durante la redazione della Costituzione e dimostra lo scontro tuttora in atto nel paese. All’indomani della tornata elettorale del 2011, numerose dichiarazioni controverse di Al-Nahda hanno alimentato le polemiche di quanti, diffidando del partito islamista, hanno temuto una regressione in ambiti sensibili come lo statuto delle donne e le libertà civili. Rashid al-Ghannushi, uno dei principali leader di Al-Nahda, ha rassicurato in molte occasioni la società civile, impegnandosi anche a firmare un patto nazionale per la salvaguardia del Codice di Statuto Personale d’epoca bourghibista. Questo codice è uno dei più avanzati nel mondo arabo e tra gli altri provvedimenti vieta la poliginia e concede alla donna il diritto al divorzio.

A fronte di questa situazione fluida, gli islamisti hanno mantenuto una condotta ambigua, con qualche uscita provocatoria che per ora è rimasta al livello della retorica politica. È in tal modo che si deve interpretare la dichiarazione di Hamadi Jebali, il quale, dopo la nomina a Primo Ministro nel novembre del 2011, dichiarava l’inizio del “sesto califfato”. Similmente, durante i negoziati per la redazione dell’Articolo 1 della Costituzione è stata avanzata la proposta di richiamare la shari’a come la fonte principale della legislazione. In questo caso, Al-Ghannushi è riuscito a creare un forte consenso in seno al suo partito per rifiutare questa proposta e per mantenere intatto l’Articolo 1 rispetto alla Costituzione del 1959. In quel testo si fa riferimento soltanto all’Islam come religione dello Stato e all’arabo come la lingua nazionale. L’Articolo 1, in altre parole, affondando le sue radici nella prima Costituzione successiva all’indipendenza, rispecchia l’identità del paese e ha accontento anche i partiti laici per i quali il richiamo all’islam non è pregiudizievole. 

Secondo alcune fonti Al-Nahda sarebbe percorso da almeno due correnti interne: una moderata che gravita attorno a Rashid al-Ghannushi e Abd al-Fattah Muru, e una oltranzista, vicina al campo salafita, guidata da Habib Ellouz e Saduq al-Shuru. Questo dualismo, da un lato spiega il cauto atteggiamento che il partito ha mantenuto nei confronti di alcuni gruppi salafiti, come Ansar al-Sharia, almeno fino al 2013 quando questo gruppo è stato incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche. Intanto, una rigida disciplina interna ha permesso al partito di proiettare all’esterno l’immagine di un fronte coeso capace di superare pragmaticamente le diversità d’opinione attraverso il dialogo tra le correnti. Quest’atteggiamento pragmatico degli islamisti tunisini si è manifestato anche in occasione del dibattito per l’Articolo 6 della Costituzione, che ha subìto rimaneggiamenti fino alla conclusione del processo costituente. I deputati islamisti hanno ottenuto che lo Stato svolga un ruolo di protezione della sfera del sacro, mentre i deputati laici hanno ottenuto la garanzia contro la politicizzazione delle moschee e il divieto di pronunciare il takfir (la pratica di accusare qualcuno di miscredenza). La formulazione finale dell’Articolo 6 è il risultato di uno scontro avvenuto tra i banchi dell’ANC dopo che Habib Ellouz ha dichiarato miscredente il deputato del fronte popolare Monji Rahoui durante una sessione pubblica. Il direttivo di Al-Nahda, con Al-Ghannushi in testa, ha preso le distanze da quanto accaduto, costringendo Ellouz a ritrattare. Anche questo caso dimostra che, nei momenti di crisi, l’interesse del partito prevale sulle ragioni dei singoli membri.

La strategia di cautela attuata dal maggior partito islamista tunisino può essere considerata uno dei fattori di successo della transizione costituzionale. Gli insuccessi sul versante economico (arresto della crescita del PIL e aumento vertiginoso della disoccupazione) e su quello securitario (attacchi, seppur sporadici, ai danni di civili e militari) dei governi di Jebali e Larayedh non hanno messo in ombra i meriti nella stesura della nuova Costituzione, considerata da Al-Nahda la priorità assoluta. Nonostante l’uccisione di due deputati della sinistra popolare (Chokri Belaid e Mohamed Brahmi) avvenuta, stando alle inchieste, per mano di alcune formazioni salafite, gli islamisti sono usciti indenni dalle critiche accettando, nel settembre del 2013 di sciogliere il governo in favore dell’esecutivo di tecnici guidato da Mehdi Jomaa. Questa scelta li ha sollevati da un incarico che in nessun modo sarebbero riusciti a fronteggiare: risollevare le sorti dell’economia e contrastare efficacemente il fenomeno terrorista.

Sul piano del risanamento dell’economia, il governo Jomaa ha avuto il compito di adottare le riforme necessarie per stimolare il mercato interno e attirare investimenti esteri fino al momento del suo scioglimento. In parte le riforme sono state suggerite dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, istituzioni che hanno vincolato a queste misure il rilascio di una nuova tranche di prestiti. Tuttavia la ripresa economica ha bisogno di tempo e richiede che il paese torni alla stabilità e alla piena sicurezza. Ciò, a sua volta, è possibile soltanto con la risoluzione dei focolai regionali, specie con la pacificazione della Libia.

Le sfide sono molte e gravi, ma ci sono anche ragioni di un certo ottimismo: dopo la fine del governo di Mohamed Morsi in Egitto, e con la guerra civile che contrappone islamisti e militari in Libia, anche in Tunisia ci si aspettava un roll back. In questo contesto si colloca invece la mossa strategica di Al-Nahda che ha abbandonato i salafiti al loro destino e ha avviato il dialogo con Nidaa Tunis per stabilizzare politicamente il paese. Centrale è stata anche la mediazione del sindacato Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (UGTT secondo l’acronimo francese) che ha facilitato alcuni compromessi nell’ambito del processo costituente. Gli islamisti hanno accettato di rimandare il progetto di giustizia transitoria che avrebbe impedito a diversi membri di Nidaa Tunis di partecipare alle elezioni. Questo partito, infatti, è tacciato di essere nient’altro che il vecchio partito di Ben Ali (Raggruppamento Costituzionale Democratico – RCD), ricostituitosi sotto altro nome. A ben vedere, i cosiddetti RCDisti sono stati inglobati da tutti i partiti tunisini attualmente al potere e pertanto l’accusa è sostanzialmente infondata.

Il paese sperimenta così la seconda campagna elettorale dall’inizio della rivoluzione. Secondo alcuni sondaggi, i due partiti principali si equivalgono per il numero di consensi ma lo scenario più quotato vede Al-Nahda in testa. Gli islamisti, infatti, hanno scommesso tutto sull’esito delle legislative e hanno scelto di non supportare nessun candidato alle presidenziali. Questa decisione dimostra quale è la vera battaglia di Al-Nahda e, al tempo stesso, scagiona gli islamisti dall’accusa di voler monopolizzare tutte le istituzioni, ripristinando un sistema autoritario.

La campagna elettorale si sta combattendo soprattutto sul piano delle riforme economiche, necessarie per conquistare i cuori dell’elettorato volatile e disilluso. I programmi elettorali di Nidaa e Al-Nahda di fatto si equivalgono in tal senso, anche se Nidaa punta sullo sviluppo dell’industria tecnologica per fare della Tunisia un paese esportatore e creare nuovi posti di lavoro, mentre  Al-Nahda si concentra sull’islamizzazione della finanza per trasformare il paese nel primo hub finanziario dell’Africa settentrionale. Inoltre, le recenti visite di Al-Ghannushi in Cina e i contatti in programma con l’India, sembrano preludere all’apertura della Tunisia ai capitali delle potenze economiche emergenti.  

La transizione costituzionale è solo il primo passo per la stabilizzazione del paese. Di certo un parlamento molto frammentato impedirebbe l’adozione di tutte le leggi necessarie per attuare le riforme economiche. Lo stesso accadrebbe però nel caso di un parlamento diviso interamente tra due i poli maggioritari, come Nidaa e Al-Nahda, se questi restassero abbarbicati su posizioni discordanti. In entrambi gli scenari, quindi, il raggiungimento del consenso e la creazione di ampie coalizioni potrà rivelarsi, ancora una volta, l’unica vera strategia di successo.