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Lo scontro dei numeri due: economia e politica estera

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Il dibattito vice presidenziale tra Joe Biden e Paul Ryan ha offerto più sostanza rispetto al primo faccia a faccia tra Barack Obama e Mitt Romney. Il vicepresidente in carica ha svolto il proprio compito adottando un atteggiamento decisamente più aggressivo e uno stile più diretto di quello scelto dal suo presidente il 3 ottobre. Il giovane congressman repubblicano, da parte sua, ha confermato le qualità di politico brillante e combattivo.

Biden ha tentato di portare la discussione verso un quesito semplice: la “fiducia” nei due team – contando su una migliore immagine del suo team rispetto a un ex-uomo della finanza come Mitt Romney e a un politico radicalmente conservatore come Paul Ryan. Inevitabilmente, i due avversari si sono scambiati accuse di ipocrisia e incoerenza, ma questo fa parte della dialettica elettorale, a maggior ragione in un sistema così nettamente bipolare come quello americano.

Il vicepresidente ha evidenziato soprattutto le contraddizioni nel piano economico repubblicano: una politica di tagli fiscali simultanea al tentativo di riportare in equilibrio il bilancio. Ryan ha contrattaccato ricordando che la crescita anemica è, a lungo andare, il problema dei problemi anche a prescindere dalle specifiche scelte contingenti.

Il principale punto di scontro è stato però di ancora più ampio respiro, cioè la direzione di marcia in cui si trova il paese: per i Repubblicani gli Stati Uniti stanno andando nella direzione sbagliata per mancanza di coraggio, mentre per l’amministrazione in carica il timone è ben orientato anche se è necessaria pazienza e cautela per correggere gli errori ereditati dal passato.

La questione dirimente è in realtà il fattore-tempo: Obama e Biden sostengono che esso gioca a favore dell’America – in estrema sintesi, la ripresa economica sta per arrivare anche grazie agli interventi governativi, e i frutti di una politica estera prudente stanno maturando. Ed è una posizione logica per chi si trova al comando, e deve dunque difendere anzitutto il proprio operato nei quattro anni passati. Ryan, come Romney nel confronto con il presidente, sostiene invece che il mandato democratico del 2008-2012 ha di fatto sprecato tempo prezioso di fronte a sfide che richiedono in larga misura le stesse ricette conservatrici applicate negli otto anni di George W. Bush. E qui sta però il più grande punto interrogativo della campagna repubblicana: quanti americani moderati (tuttora difficili da conteggiare in una corsa che sembra un testa a testa anche nei cruciali “swing state”) si convinceranno a tornare alle politiche dell’era Bush? Non è affatto un caso che, di fronte al quesito, il team di Obama stia puntando moltissimo sul sostegno di Bill Clinton, che guidò l’America in una fase di robusta crescita economica e di assai maggiore ottimismo nazionale.

Come previsto, i temi di politica estera hanno consentito a Biden di avvantaggiarsi della sua esperienza di presidente della Commissione esteri del Senato e della diffusa sensazione che la coppia Romney-Ryan sia un’incognita in questo settore.

Sul terreno internazionale si può estrapolare un punto di forza per ciascuno dei due protagonisti del dibattito: per Ryan, la constatazione che c’è un problema di fondo (evidenziato dall’episodio tragico di Bengasi, con l’uccisione di tre americani tra cui l’ambasciatore Stevens), cioè il relativo declino dell’influenza americana in Medio Oriente; per Biden l’affermazione che l’amministrazione Obama non ha fatto ricorso al bluff (frase riferita al nucleare iraniano) come scelta tattica, e dunque risulta credibile per alleati e avversari in quanto evita di generare aspettative eccessive. Si tratta, in entrambi i casi, di osservazioni valide che possono preludere a una discussione approfondita tra Obama e Romney nell’ultimo dibattito (il 22 ottobre, dedicato specificamente alla politica estera).

Intanto, si è avuta l’ennesima conferma di una vecchia regola non scritta delle competizioni presidenziali americane: nella fase finale dello scontro diretto (a primarie concluse e Convention archiviate) i candidati tendono a spostarsi verso il centro dello spettro politico, su posizioni moderate. Romney si è collocato su un terreno che gli è personalmente più congeniale – appunto, quello moderato e meno ideologico – non appena ha potuto liberarsi dei vincoli della “base” più marcatamente di destra che gli era necessaria a vincere le primarie. E sta lasciando al suo vice, Ryan, il ruolo di portavoce delle posizioni più dure nell’ambito del partito (soprattutto sul ruolo del governo federale e sulle questioni fiscali).

È probabilmente qui che si giocherà la gara per la Casa Bianca nelle settimane che restano: come mobilitare la “base” e portare davvero i propri elettori a votare, senza per questo perdere la presa sugli indecisi che cercano il messaggio più rassicurante e moderato.

 

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