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L’Irlanda dopo il referendum europeo

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L’approccio alla questione nordirlandese soffre spesso di un cronico rinvio al passato, o peggio al passato che non vuol passare. Così si rischia di trascurare alcuni importanti appuntamenti futuri che poco hanno a che vedere con i tristemente famosi Troubles. All’orizzonte politico delle sei contee fedeli alla Corona, impropriamente denominate tutte insieme Ulster, si profilano infatti una serie di referendum dopo quello irlandese sul Fiscal compact del 31 maggio scorso, che potrebbero mutare per sempre scenari ed equilibri: sono quello scozzese sulla devoluzione e quello nordirlandese sull’unificazione.

L’Irlanda geografica vive la condizione di un’isola in cui coesistono due ordinamenti giuridici profondamente diversi tra loro, dove insomma la comune adesione della Repubblica d’Irlanda e della Gran Bretagna all’Unione Europea incide poco o niente, mentre la differenza monetaria – specie in questi ultimi mesi di forte turbolenza sull’euro – crea seri inconvenienti da doppio regime valutario. Il contrabbando nelle zone di confine, ormai non più presidiate dai militari inglesi, è assai fiorente, così come i diversi sistemi sanitari e tributari provocano un continuo esodo a caccia di condizioni migliori.

È in questo scenario che il referendum appena svoltosi a fine maggio, sul federalismo di bilancio, ha portato i cittadini dell’Eire a pronunciarsi favorevolmente sull’adesione al rigore deciso a Bruxelles. Le ricadute economico-finanziarie di questa consultazione sono importanti tanto quanto quelle politiche. Il successo del “si” non ha infatti scongiurato del tutto il concretizzarsi della possibilità di una deriva “greca” del paese, e ha contribuito a far perdere alla Repubblica d’Irlanda molta della sua attrattiva anche per gli irlandesi cattolici che vivono in Ulster. I sondaggi in materia, non a caso, dicono esattamente questo: con l’Eire in crescita economica aumenta il numero di chi vorrebbe l’unione, ma con l’Eire e l’eurozona in difficoltà la maggioranza dei nordirlandesi conferma di gradire ancora la divisione.

Il secondo referendum, ipotizzato tra il 2014 e il 2016, è quello sulla devoluzione scozzese, o meglio sul passaggio dall’attuale devoluzione a una forma d’indipendenza paritetica tra Edimburgo e Londra. A parte le dichiarazioni di prammatica del leader indipendentista Alex Salmond e del premier inglese David Cameron, orientate le prime verso una separazione ineluttabile e le seconde ovviamente verso la tutela dell’asset plurinazionale britannico, è ormai pacifico che Londra non intenda opporsi allo storico referendum.

Infatti, se è vero che la devoluzione britannica è considerata asimmetrica – cioè i poteri del parlamento scozzese sono maggiori di quelli dei rappresentanti gallesi che infine sono maggiori di quelli dei deputati nordirlandesi – è anche vero che Londra soffre il passivo di trasferimenti economici sempre più insostenibili verso le proprie “province”. La consultazione scozzese serve quindi da modello per l’Irlanda del Nord, dal momento che il vice premier cattolico Martin McGuinness ha lanciato l’idea, audace e molto “tattica”, di un referendum sull’unione tra Eire e Ulster da tenersi nel 2016, simbolicamente a cento anni esatti dalla Rivolta di Pasqua, inizio del processo che portò all’indipendenza irlandese da Londra.

Le sei province unioniste, ha osservato polemicamente qualcuno, ricordano il rapporto che correva tra Mosca e i paesi satelliti del Patto di Varsavia. In altre parole un salasso continuo di finanza pubblica per mantenere la regione nell’orbita d’influenza, il tutto a dispetto di una stagnazione economica molto acuta. Analizzando i dati comparati di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, quest’ultima ha il peggior indice di adulti formati professionalmente e tassi di disoccupazione ormai endemici da generazioni. Quella che una volta si definiva working class è in molti casi divenuta una categoria di precari con sussidio di disoccupazione che mettono su famiglia generando nuovi proto-disoccupati.

La crisi della cantieristica navale è l’emblema di quest’atteggiamento benevolo di Londra. I celebri cantieri Harland & Wolff (dove nacque il Titanic), hanno subito la concorrenza asiatica al pari di quelli di Liverpool e Glasgow, ma a differenza dei fratelli inglesi e scozzesi sono stati salvati dall’intervento statale; oggi, con cinquecento addetti in luogo dei seimila di un tempo, continuano ad aprire i battenti ogni mattina.

I poteri che Westminster ha concesso a Stormont, il parlamento di Belfast, sono inferiori a quelli di Edimburgo e Cardiff, ma notevoli se paragonati al periodo più drammatico dei Troubles, quando alcune libertà individuali erano di fatto sospese (vedi le leggi speciali che permettevano l’internamento senza processo, cioè un’enormità se si pensa al Regno Unito come alla culla dei diritti civili) e ogni decisione veniva presa a Londra in sede politica quando non militare.

Insomma, il processo di pace, coronato nel 1998 dal Good Friday Agreement, è al tempo stesso incompiuto e già superato. Incompiuto non significa che il bilancio sia negativo. Al contrario: l’esercito inglese non presidia più il confine con l’Eire e il centro di Belfast è accessibile senza posti di blocco e perquisizioni. A Stormont siedono oggi nello stesso governo i nemici di un tempo che deliberano su molte materie senza il placet del governo di Sua Maestà.

Londra, tra l’altro, al termine di una meritoria nuova inchiesta sulla Bloody Sunday di Derry ha recentemente ammesso i crimini dei suoi paracadutisti; si è poi deciso di abolire la RUC, la vecchia polizia a maggioranza protestante e quindi non sempre imparziale, per una nuova forza (PSNI) equilibrata nelle sue componenti e ovviamente sopra le parti. La devoluzione dei tribunali penali e il decommissioning, ovvero lo smantellamento degli arsenali paramilitari delle due fazioni, chiudono il quadro di un processo di pace ben gestito anche se tardivo.

L’incompiutezza del processo di pace, tuttavia, è da riferirsi alle cause centrali del conflitto che non sono state rimosse: bisogna ammettere senza ipocrisie che la buona volontà del momento non serve a mitigare le aspirazioni ultimative di cattolici e protestanti. I primi, archiviata l’IRA, persistono a volere l’unificazione dell’Irlanda sotto il tricolore della Repubblica con mezzi ora pacifici, mentre i secondi continuano a temere un simile scenario e, appoggio inglese o meno, non acconsentiranno mai a rinnegare la propria fedeltà alla Corona. Ecco perché nella Belfast pacificata di oggi, tra muri e recinzioni di metallo o filo spinato, si contano oltre cento barriere che dividono i quartieri cattolici da quelli protestanti. E se in alcuni perimetri è stato possibile aprire i cancelli durante il giorno, in altri quartieri la divisione rimane ermetica e la violenza latente.

Un ulteriore elemento che accresce i limiti del processo di pace è il diverso approccio dei partiti protestanti e cattolici, e delle rispettive leadership, all’agenda politica. I protestanti vivono una diaspora tra unionisti e lealisti, e cioè tra i membri della classe medio-alta e la vasta classe operaia; i lealisti, che si sono sentiti prima incoraggiati dagli unionisti durante i Troubles a sporcarsi le mani nella guerra civile, e poi a votare il DUP (Democratic Unionist Party) come loro rappresentante al parlamento di Stormont, lamentano oggi un totale disinteresse rispetto a problemi come la disoccupazione, l’abbandono scolastico e la segregazione, che affliggono i quartieri popolari di Belfast.

Altre logiche, di maggior coesione, caratterizzano invece il campo cattolico. L’osmosi dei membri dell’IRA nel movimento politico Sinn Fein si è compiuta negli anni con gradualità. L’esempio più significativo è quello rappresentato da Martin McGuinness, oggi vice primo ministro nordirlandese, che era uno dei capi paramilitari nella nativa Derry. Durante le ultime elezioni presidenziali in Eire del 2011, McGuinness, benché fosse formalmente ineleggibile (in quanto cittadino nordirlandese) si è ugualmente candidato, arrivando terzo con un buon consenso. Il test ha fornito utili indicazioni al vertice cattolico dello Sinn Fein e al suo leader Gerry Adams; quest’ultimo, facendosi eleggere deputato al parlamento di Dublino e dimettendosi da quello di Westminster (dove come tutti i cattolici nordirlandesi lasciava il seggio vacante), ha scelto di continuare la battaglia per l’unione dal cuore della Repubblica, creando così un asse dinamico e strategico con McGuinness per coordinare le politiche nazionaliste dalle due capitali dell’Isola.

Occorrerà vedere dunque come questo mix di crisi – finanziaria dell’eurozona e del bilancio britannico – influirà sulle rivendicazioni identitarie, sempre fortissime, e sulla capacità dei partiti politici d’interpretare al meglio una situazione così fluida. Gli irlandesi hanno votato a maggioranza per restare nell’Euro ma occorrerà vedere se la moneta unica sarà in grado di confermarsi all’altezza della fiducia che ancora una volta le è stata accordata.