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Dopo bin Laden: al Qaeda e la campagna presidenziale

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A circa un anno dal raid dei Navy SEALs che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden in Pakistan, il Combating Terrorism Center dell’accademia militare di West Point ha pubblicato un documento di analisi riguardante 17 lettere (declassificate) trafugate dai militari insieme a numerosi altri documenti dal covo di Abbottabad. Esse ci mostrano un bin Laden preoccupato di come mantenere la sua leadership, afflitto dall’incapacità politica dagli affiliati regionali, e impegnato nell’ideazione di una nuova strategia mediatica in grado di rilanciare l’immagine dell’organizzazione all’interno della comunità islamica. Insieme alla pubblicazione delle lettere non sono mancate, sul versante politico, forti critiche da parte dei vertici repubblicani, che hanno apertamente – e in maniera forse inopportuna – accusato Obama di politicizzare la ricorrenza della morte di bin Laden, a soli sei mesi dalle elezioni presidenziali.

L’obiettivo principale dell’operazione Neptune Spear, condotta dagli uomini delle forze speciali statunitensi il 2 maggio 2011 nel compound di Abbottabad (Pakistan nord-orientale), non era probabilmente – e a differenza di quanto quasi tutti hanno pensato – la cattura di bin Laden. Secondo una tecnica ben collaudata, infatti, le operazioni di contro-terrorismo si basano su un processo noto come F3EA (Find, Fix, Finish, Exploit and Analyze) volto alla raccolta di informazioni sensibili sul campo di battaglia. Tali informazioni sono utili per individuare di ulteriori bersagli e rivelano aspetti importanti sull’organizzazione terroristica. Nel raid di Abbottabad è stato così rinvenuto quello che l’intelligence community ha definito il tesoro più grande dall’inizio della war on terror. Era contenuto in cinque computer, qualche hard disk e decine di drive USB.

Le lettere pubblicate lo scorso 3 maggio sono la corrispondenza tra il fondatore e alcuni leader di spicco di al Qaeda nel periodo che va dal 2006 al 2011 (l’ultima delle lettere risale a una settima prima della morte dello sceicco). In esse, traspare innanzitutto la preoccupazione di bin Laden per i molti errori commessi dagli affiliati regionali di al Qaeda (sigle come AQI, AQAP, AQIM, TTP) responsabili dell’uccisione di altri “fratelli” musulmani e incapaci di condurre un’efficace strategia di consenso politico nei confronti delle popolazioni locali.

In particolare, sembra essere AQAP (il braccio dell’organizzazione operante nella penisola arabica) a suscitare in bin Laden le inquietudini maggiori. La lotta ingaggiata contro il governo centrale di Sana’a, causando molte vittime tra le forze di sicurezza yemenite, contravviene ai principi del jihad che vieta l’uccisione di altri musulmani e finisce per nuocere all’immagine dell’organizzazione. Si corre il rischio – così ammoniva lo sceicco – di perdere di vista l’obiettivo principale della guerra, ovvero gli Stati Uniti.

La criticità della situazione yemenita e l’impossibilità di venire a capo delle forze di sicurezza del governo centrale sollevavano chiaramente dei dubbi sulla competenza della leadership di AQAP. In una prima lettera scritta in concomitanza con le proteste degli yemeniti contro il presidente Saleh del febbraio 2011, bin Laden ammonisce l’allora capo di AQAP, Nasir al-Wuhayshi, ansioso di proclamare un Emirato Islamico senza prima aver guadagnato il consenso della popolazione e che non teneva in debito conto un possibile intervento dell’Arabia Saudita. Per le stesse ragioni, bin Laden rifiuta la candidatura di Anwar al Awlaki (lo yemenita di origini nordamericane convertitosi alla causa di al Qaeda) a futuro leader di AQAP. Lo sceicco non nasconde neanche lo scetticismo nei confronti di Inspire (la rivista in lingua inglese diffusa da AQAP e fondata dallo stesso al Awlaki), giudicata inappropriata nei contenuti.

Alla luce delle lettere di Abbotabad, è senza dubbio questo l’errore di valutazione più evidente ad emergere nella strategia statunitense della guerra al terrorismo. Negli ultimi anni, lo Yemen è stato infatti giudicato dagli apparati di intelligence come il più pericoloso affiliato di al Qaeda. Al contrario, al Qaeda Central – AQC (termine con il quale si è iniziato ad indicare il core afgano-pachistano dell’organizzazione per distinguerlo dalle branche regionali) temeva per l’incompetenza operativa dei suoi affiliati al punto che bin Laden arrivò a dichiarare – così come si legge in una delle lettere – la necessità di redigere un memorandum d’intesa che obbligasse i vari leader regionali a comunicare i piani degli attacchi terroristici e ad attendere l’approvazione di ACQ prima di metterli in pratica.

In ogni caso, da questo e da altri indizi rintracciabili nei documenti, si evince che la raffigurazione di al Qaeda come una struttura solida e nel pieno controllo dei partner minori non corrisponde  alla realtà.

Peraltro, più ancora che il contenuto del rapporto pubblicato dagli esperti di contro-terrorismo di West Point, quello che negli Stati Uniti sembra aver suscitato maggior clamore è la polemica politica nata a seguito della ricorrenza del raid di Abbottabad. I vertici del Partito Repubblicano hanno accusato Obama di voler politicizzare l’episodio: il timing scelto (sei mesi dalle elezioni presidenziali) per la pubblicazione delle lettere e le “eccessive celebrazioni” per la morte di Osama bin Laden mostrerebbero il tentativo di appropriarsi di un evento unificante, che dovrebbe appartenere a tutti i cittadini americani. Andrea Saul, portavoce di Romney, ha dichiarato che Obama cercherebbe in questo modo di distrarre gli elettori dai fallimenti della sua amministrazione.

Occorre dire che, oltre a rappresentare il più grande risultato della politica estera di Obama (il presidente stesso lo ha definito il giorno più importante del suo intero mandato), l’uccisione di bin Laden colma in qualche il modo il tradizionale gap tra l’impegno dei Democratici e quella dei Repubblicani in politica estera. Questi ultimi – e non solo con George W. Bush – hanno sempre saputo sfruttare a proprio vantaggio i temi della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo, facendone un formidabile cavallo di battaglia elettorale. Per il GOP non è stato dunque facile incassare il colpo, come dimostrano appunto le polemiche delle ultime settimane.

La reazione repubblicana alle scelte di Obama, però sembra frettolosa e tatticamente inopportuna, non tenendo conto di due elementi importanti. Il primo riguarda una questione di stile: a livello d’immagine sarebbe stato molto più redditizio per Romney unirsi alle celebrazioni, ringraziando i militari che hanno condotto l’operazione e promettendo che, una volta eletto, avrebbe continuato con la stessa tenacia nella lotta al terrorismo internazionale. Il secondo punto riguarda invece la lettura e l’interpretazione dei temi elettorali: la politica estera, infatti, non sembra comunque essere così determinante nella corsa alla Casa Bianca. Secondo un recente sondaggio condotto da CBS/New York Times, tra i temi più importanti per gli americani ci sarebbe al primo posto l’occupazione con il 26% e al secondo l’economia (in termini più generali) con il 22%, mentre la politica estera è stata indicata da una percentuale trascurabile.

Vista la volatilità di una buona fetta dell’elettorato statunitense, viene da pensare che la polemica messa in atto dai Repubblicani siano state superflue se non addirittura controproducenti. Il ricordo indelebile delle vittime del 9/11 attribuisce, del resto, un evidente valore simbolico all’uccisione di bin Laden e qualunque presidente, repubblicano o democratico, avrebbe ovviamente dato un grande rilievo comunicativo alla vicenda.