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L’Iraq visto da Israele: nuovi scenari?

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Storicamente le relazioni tra Iraq e Israele non sono mai state idilliache, e numerosi contenziosi sono ancora aperti tra i due Paesi. Come per molti contrasti – acuti o latenti – in Medio Oriente, infatti, non bisogna lasciarsi troppo abbagliare dai cambiamenti al vertice ma registrare le tendenze di lungo periodo.

L’Iraq è stato, storicamente, il Paese che con più forza si è opposto al riconoscimento dello Stato di Israele, arrivando perfino (sotto Saddam Hussein) a sospendere le relazioni diplomatiche con gli USA per quindici anni in ritorsione alla mancata condanna statunitense dell’occupazione dei Territori palestinesi nel 1967. Ancora, Israele ha bombardato il reattore nucleare di Osirak nel 1981 inaugurando, proprio contro l’Iraq, la strategia delle guerre preventive. I due Paesi, inoltre, hanno alcuni altri contenziosi bilaterali tuttora aperti, come il problema dell’espulsione di massa degli ebrei iracheni tra il 1949 e il 1952 – che attendono ancora, a parere di Israele, riparazioni economiche simili a quelle pagate dalla Germania di Adenauer negli anni Cinquanta. Appena lo scorso febbraio, la Knesset ha passato un disegno di legge, fortemente sostenuto dal partito degli ultra-ortodossi (SHAS), che obbliga il governo di Israele a sollevare la questione dei rifugiati ebrei in ogni negoziato di pace con i paesi arabi, stabilendo un’equazione  ideale con il problema dei rifugiati palestinesi del ’48.

Durante l’invasione americana dell’Iraq, non furono poche le voci che condannarono l’intervento americano come una guerra a vantaggio del proprio “proxy state” Israele, rovesciando la tradizionale logica della superpotenza che delega le guerre ai propri alleati regionali. La strategia dell’amministrazione Bush rispondeva in realtà a ben altri obiettivi, ma è indubbio che vi sia stato un positivo ritorno elettorale per il partito Repubblicano rispetto al voto ebraico, tradizionalmente pro-Democratico. Israele ha però anche pagato un caro prezzo per l’allineamento con Washington nella percezione dell’opinione pubblica internazionale dopo il 2003: molte delle manifestazioni che si sono tenute in Europa, in America e in Paesi musulmani come l’Indonesia all’indomani dell’invasione irachena hanno infatti presentato i due Paesi, senza distinzione, come potenze coloniali.

In una recente conferenza sull’Iraq ospitata dal Truman Inistitute, il centro di studi internazionali dell’Università Ebraica di Gerusalemme, l’ex ambasciatore israeliano in Iran, Uri Lubrani, ha sostenuto che il Medio Oriente, una volta che “la polvere si depositerà al suolo”, non sarà più quello di prima. La questione dell’Iraq per Israele è oggi intrinsecamente legata al nucleare iraniano: ben prima della Rivoluzione islamica, lo Shah aveva avviato un suo programma nucleare, rivelando come l’aspirazione iraniana a trasformarsi in una potenza regionale risalga almeno a quarant’anni fa. Il problema, a parere di Uri Lubrani, è che l’Occidente ha sempre sottovalutato questa minaccia e che nel frattempo sia l’Iraq che l’Iran sono esplosi demograficamente, rendendo lo squilibrio strategico con Israele molto più evidente.

Efraim Halevy,  ex capo del Mossad, ha affermato che Israele commise un errore strategico non intervenendo nella guerra che per otto lunghi anni oppose l’Iraq all’Iran – per approfittare soprattutto della vulnerabilità del primo. In effetti, già nel 1964 Israele cercò di addestrare le truppe curde al fine di organizzare una loro sollevazione armata contro il governo centrale in caso di attacco iracheno a Israele. Nel 1973, durante la Guerra del Kippur, Israele cercò nuovamente di negoziare una sollevazione dei Curdi ma questi rifiutarono di impegnarsi in qualsiasi azione di supporto, forse temendo eventuali rappresaglie a guerra terminata. Oggi un intervento diretto israeliano in Iraq non è più possibile, ma Israele ha un forte interesse ad appoggiare una ricostruzione dell’Iraq come Paese solido in funzione anti-iraniana.

Per Israele, l’istituzione di un vero governo federale in Iraq sarebbe il migliore degli scenari possibili: un Iraq dove il nord curdo sia forte e parzialmente indipendente e in buone relazioni con il vicino turco – condizione questa che permetterebbe eventualmente di riavviare l’oleodotto che collegava Kirkuk al porto di Haifa e reinserire Israele in un circuito economico fondamentale come quello energetico. Un Iraq dove i Sunniti rappresentino un nuovo elemento interno di moderazione  interessato ad una maggiore integrazione regionale con gli Stati del Golfo, e dove gli Sciiti siano rappresentati nelle istituzioni nazionali ma non come componente maggioritaria. Gli analisti israeliani concordano comunque che l’essenziale non consiste in immediate contropartite economiche ma nella stessa stabilizzazione interna dell’Iraq.

D’altra parte, è innegabile che vi siano anche motivazioni ancora più immediate e pragmatiche alla base dell’interesse israeliano verso l’Iraq: nel 2008 una fonte di Yediot Ahronot, il quotidiano più popolare del Paese – poi smentita dalle autorità militari israeliane – rivelò che l’aeronautica stava portando avanti esercitazioni sullo spazio aereo iracheno utilizzando le basi USA presenti nel Paese. Tale possibilità assumeva una valenza strategica enorme nell’eventualità di un attacco militare preventivo ai rettori nucleari iraniani da parte di Israele, accorciando tempi e distanze e rendendo possibile un sorvolo del reattore nucleare di Bushehr (il più vicino) in appena cinque minuti.

Dalla recente conferenza del Truman Institute, sopra ricordata, è emerso un’altra ipotesi interpretativa interessante: quella per cui che Israele pecchi di una sorta di “egocentrismo” quando si parla di Medio Oriente, visto che il conflitto israelo-palestinese non è più di fatto il problema centrale della regione.

Le questioni all’ordine del giorno si sono spostate proprio tra Iran e Iraq: in questo contesto, la Turchia, assai più di Israele, ha da giocare un ruolo importante. E Ankara lo sta già facendo, cercando di sviluppare l’Anatolia orientale dal punto di vista economico e delle infrastrutture in modo da disinnescare le rivendicazioni curde e convertire il confine con l’Iraq in una regione produttiva che benefici finalmente del “nuovo corso” post-Saddam.

L’amicizia israelo-turca non dev’essere certamente data per scontata, visto il recente ri-orientamento di Erdogan in politica internazionale: ma un governo israeliano che ragioni sugli interessi di lungo periodo del Paese deve saper riconoscere in questo rapporto una priorità strategica, suscettibile di sondare, attraverso la mediazione turca, anche la possibilità di  rapporti con il nuovo Iraq.

Nel 2004 e ancora nel 2008 Israele è stato visitato da un deputato sunnita del Parlamento iracheno, Mithal al-Alusi, al prezzo di un attentato che è costato la vita a due dei suoi figli e ha comportato per lui la rinuncia all’immunità parlamentare, in violazione di una legge irachena che vieta ai propri rappresentanti qualsiasi rapporto ufficiale con Israele. La legge, nel nuovo Iraq, è ancora in vigore e fortemente sostenuta dall’opinione pubblica, come rivela un sondaggio di al-Jazeera realizzato nel novembre 2009. Il sondaggio risale alla 36° fiera internazionale di Baghdad, che fu la prima a ignorare l’obbligo per le ditte espositrici di non intrattenere relazioni commerciali con Israele. Le timide aperture del governo iracheno in questo senso, anche se non reclamizzate, si scontrano contro un’opinione pubblica consolidata che identifica uno dei pilastri della coscienza nazionale nell’opposizione ad Israele e nella solidarietà con la lotta dei Palestinesi e il ritorno dei rifugiati.

Un altro esempio di tendenze di lungo periodo esistenti nell’Iraq di oggi e difficili da estirpare. Ma soprattutto rese nuovamente attuali dagli scontri e dai problemi della ricostruzione: come dichiara un deputato iracheno, Dhafir al-Ani, che fa capo al Movimento di Allawi, “ogni iracheno è cresciuto con l’idea che Israele sia uno stato illegittimo e criminale, e oggi pensiamo che uno degli obiettivi della rimozione del regime di Saddam da parte USA fosse quello di rimuovere l’Iraq dalla lista dei nemici di Israele”.

Le scenari sono più aperti che in passato, ma un nuovo Grande Medio Oriente è ancora lontano dal vedere la luce.