international analysis and commentary

L’Iraq al centro della geopolitica regionale

347

Mediaticamente offuscato dal vicino conflitto in Siria, l’Iraq è in effetti al centro della geopolitica regionale. Arabia Saudita e Iran hanno entrambi interesse a esercitare un’influenza nel paese, preoccupati che esso possa diventare (nonostante i tanti focolai di crisi interni) troppo forte, sfidando così la loro egemonia nel quadrante. Nel 2012 l’Iraq è divenuto il secondo produttore giornaliero di petrolio al mondo, scavalcando proprio l’Iran. Il governo iracheno, monopolizzato dagli sciiti, è molto legato a Teheran: forse, è anche per controbilanciare questa relazione che Riyād si è lanciata nella “campagna di Siria”, volta a massimizzare i suoi dividendi politici in un dopo-Assad che appare, però, ancora molto nebuloso.

Da un punto di vista geografico, l’Iraq è un naturale cuscinetto fra sauditi e iraniani. La frammentazione della società irachena lungo linee di faglia confessionali (sunniti, sciiti) ed etniche (arabi, curdi) sovraespone il paese alle interferenze dei suoi ingombranti vicini, anche grazie al ruolo delle diaspore e ai legami transnazionali intessuti dai clan tribali.

Finora, la politica estera dell’esecutivo di Nouri al-Maliki ha tentato di ritagliarsi un profilo di neutralità rispetto alle tante crisi mediorientali, coltivando buoni rapporti con Teheran ma anche con la Casa Bianca e tentando di rasserenare le relazioni con le monarchie sunnite del Golfo. D’altronde, le profonde divisioni etno-settarie dell’Iraq rendono impossibile l’elaborazione di una politica estera condivisa e dunque pienamente legittimata. Mediante lo strumento della proiezione esterna, Al-Maliki è stato comunque abile a rafforzare alcune alleanze parallele strategiche (Iran e Stati Uniti) consolidando, in un gioco a due livelli, il suo network clientelare di potere. La questione siriana – che vede il governo di Baghdad e quello di Riyād schierati a difesa di due linee contrapposte – allontana però qualsiasi ipotesi di disgelo fra i due paesi, mettendo a rischio il non-allineamento della politica irachena. A ciò si aggiunge il “fattore Najaf”, città santa dello sciismo iracheno, tornata punto di riferimento dottrinale per le minoranze sciite della Penisola arabica (in Bahrein e nella regione orientale dell’Arabia), guardata perciò con sospetto dal regno wahhabita. Nonostante i sauditi e l’Iraq abbiano siglato nel 2012 un patto di difesa (ma anche gli Al-Saud e gli iraniani ne firmarono uno nel 1998), l’Arabia Saudita non ha mai nominato un ambasciatore a Baghdad dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Di recente, il premier iracheno ha proposto a Riyād e ad Amman di dare vita a ciò che ha definito un “asse della moderazione”, da contrapporre ai paesi dell’“asse dell’estremismo” che sostengono la diffusione della Fratellanza musulmana nell’area: non vi sono stati seguiti tangibili.

Pur fra le tante difficoltà oggettive, l’Iraq guidato da Al-Maliki vuole tornare oggi al centro della politica regionale per due motivi differenti ma complementari. Dopo dieci anni di presenza militare statunitense, l’esecutivo di Baghdad intende riappropriarsi della prerogativa di fare politica estera, nel tentativo di recuperare parte del rango politico perduto dopo anni di sanzioni e conflitti. Centrare questo scopo potrebbe contribuire a consolidare la legittimità interna delle istituzioni federali, arginando le molte sfide domestiche alla sovranità dello Stato (insorgenza sunnita, nuova vitalità del jihadismo qaedista, attentati contro gli sciiti, autonomismo curdo), dietro le quali si cela anche l’eterno conflitto fra centro e periferia. Il problema è che questo tentativo di Baghdad sta generando contro-reazioni: larga parte del mondo sunnita iracheno torna a mobilitarsi contro il potere di Baghdad, Al-Qaeda rialza la testa, e l’Arabia Saudita scorge allora un’occasione per provare a reinserirsi nelle dinamiche di un paese in cui il rivale iraniano ha accumulato, negli anni, un vantaggio innegabile. Poche settimane fa, in occasione del tradizionale pellegrinaggio alla Mecca (Haji), alcuni capi tribù iracheni hanno confermato di essere stati invitati a colloquio dal re saudita Abdullah; tuttavia, nonostante l’Arabia abbia fatto leva sui legami clanico-tribali (si pensi alla potente confederazione degli Shammar, presente sia in Siria che in Iraq), gli shaikh non avrebbero raggiunto un accordo su quale atteggiamento tenere. Il movimento sunnita che in Iraq protesta contro l’autoritarismo settario del governo Al-Maliki è infatti estremamente composito e quindi difficile da intercettare, poiché include capi tribali, religiosi, Fratelli musulmani, esponenti del vecchio partito di regime Baath, jihadisti. Alcuni gruppi sunniti sono stati addirittura cooptati nel sistema di patronage del primo ministro: è il caso di parte dei miliziani Sahwa (in arabo “risveglio”, conosciuti anche come Sons of Iraq) che dal 2007 si ribellarono allo strapotere economico di Al-Qaeda nelle loro terre dell’ovest iracheno (Al-Anbar, Ninive, Salah al-Din), con una mobilitazione tribale che coadiuvò il successo del surge del generale David Petraeus. Coloro che sono stati reintegrati – come promesso dal governo agli statunitensi – nelle forze armate o nella pubblica amministrazione, hanno preso le distanze dalle manifestazioni anti-governative, mentre gli altri – che costituiscono però la maggioranza – ingrossano ora le fila della protesta e, talvolta, delle milizie jihadiste.

Sauditi e iracheni hanno almeno una preoccupazione comune: il timore che i gruppi jihadisti, talvolta legati ad Al-Qaeda, delle province occidentali dell’Iraq uniscano le forze con quelli della regione orientale siriana, la prima a essere controllata dalle milizie che si oppongono al regime di Bashar al-Assad. Guardando alla stabilizzazione della confinante provincia di Al-Anbar (dove sorge la celebre Falluja) Iraq e Arabia Saudita potrebbero allora trovare un’insolita convergenza in tema di sicurezza, che permetterebbe a Riyād di rientrare nei giochi politici iracheni. Questa ipotesi è però complicata dall’Iran, da tempo impegnato a irrobustire i propri legami con le tribù sciite dell’Iraq meridionale. Si tratta di un’azione di disturbo nei confronti del confine saudita nella zona – assai ricca di petrolio – che lambisce geograficamente sia il regno wahhabita che il piccolo Kuwait degli Al-Sabah. Sono i pasdaran iraniani (e soprattutto gli Al-Quds, i reparti speciali guidati all’estero dal generale Qassem Suleimani) a occuparsi del dossier iracheno: ecco perché i gruppi sciiti di sostegno tribale (Isnaad councils), organizzati nel sud dal governo Al-Maliki a partire dal 2008, rappresentano un luogo di facile raccordo fra iraniani e clan sciiti iracheni, in quanto strumenti politico-militari afferenti al primo ministro. Nata per contrastare l’espansione delle milizie sciite nel sud dell’Iraq, tale iniziativa ha consentito ad Al-Maliki di istituzionalizzare una rete di clientela a lui fedele, fornendo ai capi tribali le risorse economiche (salari e posti di lavoro) da redistribuire all’interno della propria comunità.

Anche per comprendere se è in atto un reale riavvicinamento politico fra Iran e Stati Uniti e un inizio di distensione fra le due sponde del Golfo, occorrerà dunque fare attenzione a due dinamiche relative all’Iraq: le mosse di diplomazia regionale di Baghdad e le interferenze saudite e iraniane nel paese. Senza però dimenticare che i confini tracciati dall’accordo di Sykes-Picot del 1916 (con il quale le potenze coloniali disegnarono il loro Medio Oriente) vivono oggi, specialmente nel Levante arabo, una fase di rinegoziazione profonda. Il rischio è quindi che l’Iraq, inteso come stato unitario, si avvii verso una disgregazione di fatto, accelerando il consolidamento di due aree d’influenza esterna su base confessionale (sauditi sull’ovest, iraniani sul sud, più l’autonomismo curdo a nord). Il governo dell’Iraq potrebbe diventare, in realtà, quello della sola Baghdad: è una prospettiva che, tuttavia, l’attuale élite sciita accetterebbe se servisse a prolungare la conservazione del potere. In un quadro interno così incerto, la politica estera di non-allineamento – che ricorre ad alleanze parallele – permette così al governo iracheno di ampliare le opzioni diplomatiche ma potrebbe non bastare a impedire la frammentazione definitiva del paese.