international analysis and commentary

Libia: la svolta e le insidie del futuro

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Muammar Gheddafi è stato giustiziato in modo sommario, dopo essere stato braccato per molte settimane. E’ probabile che costituisse ancora una possibile minaccia per una parte della popolazione civile libica – tornando alla lettera della Risoluzione ONU da cui l’operazione della NATO trae legittimità giuridica – ma certo non era più il fattore decisivo per il futuro del paese. Ben prima della sua fuga di agosto da Tripoli, il suo destino politico era segnato già a fine marzo: da quando, cioè, la NATO ha preso in mano le operazioni militari, alterando inesorabilmente l’equilibrio di forze sul terreno. Quanto al suo destino personale, è chiaro che la (quasi) completa assenza di truppe occidentali sul suolo libico ha lasciato gli eventi in balia delle dinamiche locali – da cui una “coda” violenta tipica delle sconfitte politiche di molti leader non democratici.

Dall’esito della vicenda personale e politica di Gheddafi si può trarre una lezione semplicistica sui regimi autoritari: i dittatori che superano certi limiti, e si contrappongono frontalmente alla “comunità internazionale”, vengono alla fine abbattuti. Da Milosevic a Saddam, la storia recente va in questa direzione. In realtà il quadro è ben più complicato, soprattutto perché quei limiti non sono predefiniti con precisione, e perché servono condizioni aggiuntive per rendere possibile un robusto intervento internazionale contro il governo di un paese sovrano.

Anzitutto, i limiti da non varcare vengono fissati di volta in volta, con il rischio evidente di adottare, in situazioni simili, due pesi e due misure. E’ lampante, ad esempio, la diversa reazione internazionale al caso libico rispetto a quello siriano – almeno fino ad oggi. Ciò detto, in termini di etica politica si è affermato comunque il principio generale della “responsabilità di proteggere”, sebbene esso sia applicato in modo imperfetto o incompleto. Si può discutere, e molto, sull’efficacia e la prontezza degli interventi delle coalizioni internazionali in caso di gravi minacce per i civili, ma rimane il dato che quel principio si sta affermando. La Libia lo conferma, perché è indubbio che Gheddafi al potere, dopo le prime fasi della rivolta, significasse un altissimo rischio di repressioni violente ed eccidi. Il fatto che nella vicenda vi fossero specifici interessi e obiettivi – francesi, britannici, americani etc. – non toglie che il problema fosse reale e urgente.

Veniamo allora alla precondizione che fa passare dalla retorica all’azione congiunta internazionale. Perché si produca un’operazione coercitiva, gli interessi di almeno alcuni governi occidentali devono essere direttamente toccati dalla crisi, e deve esservi un appoggio (più o meno convinto e intenso) degli Stati Uniti. Altrimenti, per qualunque despota rimane l’opzione di una specie di resistenza passiva che può protrarsi molto a lungo.

Sul piano pratico, la crisi libica conferma inoltre che c’è un trade-off tra il grado di coinvolgimento diretto degli occidentali e il pericolo connesso ad affidarsi a movimenti e milizie locali. Se si vuole limitare (o evitare del tutto) la presenza militare sul territorio, è inevitabile appoggiare una fazione che sul territorio sia invece insediata – e dunque lasciarle un certo margine di autonomia. Come si è visto anche in Afghanistan (prima con l’Alleanza del Nord e poi in parte con lo stesso governo Karzai), un partner locale risulta molto utile per devolvere funzioni e responsabilità, ma ha un costo elevato (sia economico che politico). Si tratta di scegliere tra due prezzi da pagare: i rischi e le responsabilità dirette, oppure la parziale perdita di controllo.

Inoltre, quanto più ci si affida ad attori locali, tanto più si allungano i “tempi tecnici” perché gli strumenti militari dei paesi occidentali, perfino se accompagnati a dure sanzioni economiche, portino a un “cambio di regime” (visto che di questo si tratta, sebbene esitiamo a usare il termine).

Qui si genera un effetto paradossale sulle opinioni pubbliche occidentali: da un lato, è difficile spiegare che l’alleanza più potente della storia (la NATO) debba impiegare mesi per sconfiggere militarmente il dittatore, ormai isolato nel suo stesso paese, di uno stato con nemmeno sette milioni di abitanti. Parte del problema sta appunto nei vincoli alle operazioni che la NATO si è auto-imposta, e che dipendono da considerazioni politiche, oltre che di austerità dei bilanci della difesa. D’altra parte, sono proprio le opinioni pubbliche dei paesi-membri dell’Alleanza ad essere contrarie a qualunque aumento delle spese militari – a torto o a ragione. Insomma, se una coalizione occidentale restringe i propri obiettivi i tempi si allungano, ma la sua superiorità materiale e organizzativa non viene meno.

Veniamo infine alla situazione libica da qui in avanti. Stiamo imparando a conoscere le tante peculiarità di ciascun paese mediorientale, ora che il coperchio delle dittature si sta alzando: diversità etnico-linguistiche, settarie, claniche, sociali. In tal senso, nel caso specifico della Libia il problema immediato è l’ampliamento del Consiglio Nazionale Transitorio (CNT), oggi incentrato sulla Cirenaica. E’ un problema che esiste già dall’estate, visto che la cacciata delle forze “lealiste” da Tripoli ha subito creato l’esigenza di allargare alla Tripolitania l’embrione di gruppo dirigente nazionale rappresentato appunto dal CNT. Ora si tratterà di evitare un ciclo di vendette e rese dei conti di tipo “iracheno”, convogliando i conflitti per il controllo territoriale e delle risorse verso una trasparente competizione politica – ed elettorale, con tutte le cautele del caso. Un percorso che sarà comunque lento e travagliato, complicato anche dalla presenza di forze islamiste che si sono ormai ritagliate uno spazio e che converrà cercare di cooptare per quanto possibile.

Le primavere arabe – al plurale, proprio perché le differenze sono molte – hanno attivato un fattore sociale e politico nuovo per la regione, che ora non potrà essere riposto in un cassetto: i cittadini sanno di poter cambiare gli equilibri al vertice, anche se solo mediante il ricorso a proteste massicce e a canali non istituzionali. Proprio per la carenza di sbocchi regolati per manifestare il dissenso, come quelli di uno Stato democratico moderno, le strutture profonde del potere sono più resistenti al cambiamento e tendono a riciclarsi. La Libia, in analogia con Tunisia ed Egitto, può imboccare varie strade: una di queste è lo sviluppo graduale di un sistema politico rappresentativo, di una società aperta e di un assetto economico più dinamico. Senza illusioni e senza trionfalismi – proprio in base alle dure lezioni dei paesi vicini – si può dire che anche per i libici si è aperto un capitolo nuovo.

Questo articolo è stato pubblicato su Il Messaggero del 21 ottobre 2011