Non è chiaro quali saranno i costi, in vite umane, dell’ultimo atto. La battaglia finale di Tripoli è comunque una battaglia cruenta. Gheddafi, come Saddam, sta scegliendo di combatterla fino in fondo: nonostante la defezione di parte dei suoi, può ancora contare sull’appoggio della brigata Khamis e dei mercenari africani.
La fine del regime sta avvenendo nei modi cui si è svolta per mesi questa strana guerra: a colpi di disinformazione. Il ritorno in campo di Seif al-Islam, di cui era stato annunciato l’arresto, dimostra che il controllo di Tripoli, da parte dei “ribelli”, non è completo. Al di là della capitale, Gheddafi può ancora contare sulle postazioni di Zwara, a Ovest, e sulle roccaforti di Sirte e di Saba in Libia centrale. La battaglia non è finita. Le forze dei ribelli – coperte dai bombardamenti della NATO e aiutate probabilmente da gruppi di forze speciali straniere – sono riuscite ad entrare con relativa facilità nella capitale: i berberi da Ovest e da Sud, le truppe del Consiglio di Bengasi da Est. Ma dovranno combattere ancora contro la testa del regime. E resta da vedere in che tempi e in che modi Gheddafi uscirà di scena. Il precedente di Saddam, nell’Iraq dell’aprile 2003, dimostra che fra la liberazione della Piazza e la fine del dittatore esiste sempre uno scarto, con violente scosse di assestamento.
Siamo comunque all’epilogo: dopo cinque mesi di una guerra nel cortile di casa dell’Europa, ma a tratti dimenticata o perfino rimossa dagli europei, è giunto il momento della verità, per il regime di Gheddafi. La sconfitta del dittatore di Libia salva la faccia alla NATO. Ma non sarà affatto semplice da gestire. Se la Libia verrà lasciata a se stessa, da un’Europa alle prese con la propria crisi finanziaria, vittoria e fallimento potrebbero saldarsi. In un “successo catastrofico”, secondo l’espressione pessimistica e cinica che sta circolando a Bruxelles.
I precedenti – dai Balcani all’Iraq – indicano costi e rischi dei dopo-guerra. Nel caso della Libia, il primo rischio è che la caduta di Gheddafi prepari un nuovo ciclo di violenze, lasciando esposti i civili e risucchiando il vasto fronte dei “vincitori” in un pesante regolamento di conti (passati e presenti). Come verrà garantita la sicurezza? L’America tenderà a sfilarsi dal gioco, dopo avere partecipato controvoglia alle operazioni militari. Obama ha sottolineato che l’America resterà accanto al popolo libico. Ma Washington non intende fornire né uomini (né aiuti economici rilevanti, probabilmente) alla gestione di un problema che considera parte delle responsabilità europee. L’Europa, che con Parigi e Londra ha trainato l’intervento militare – ma esponendo così tutti i limiti delle proprie capacità operative – passerà a sua volta la mano. L’intenzione è di avallare le ipotesi, in discussione all’ONU, di una missione di monitoraggio iniziale affidata ad arabi ed africani. Risultato: nel dopo-Gheddafi, il ruolo di paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita e il Katar aumenterà. Sul piano formale, le responsabilità di sicurezza saranno dei libici stessi. Con esiti incerti, naturalmente. Anche per gli interessi europei.
Sul piano politico, il rischio è ancora più evidente. Italia, Europa e Stati Uniti hanno scommesso, assieme a parte del mondo arabo, su una ipotesi precisa: che il Consiglio di Transizione Nazionale creato a Bengasi riesca a garantire un processo di riconciliazione, tenendo sotto controllo le rivalità tribali e avviando la costruzione di istituzioni nazionali in un paese che ne è privo da sempre. Questa scommessa, già difficile, è complicata dal ruolo decisivo assunto dai ribelli occidentali, dai berberi di Nafusa, nella offensiva militare su Tripoli. Quanta della Libia anti-Gheddafi sarà disposta a riconoscere la leadership di Bengasi? Il rischio di una spartizione di fatto non è scongiurato. Con la fine del vecchio regime, comincia la nuova lotta per il potere. Che avrà il petrolio, fra le poste in gioco.
È scontato e legittimo che i paesi europei, Italia inclusa, puntino a garantire i propri interessi energetici. Ma è essenziale che l’Europa, dopo essersi divisa sulla guerra a Tripoli, non si divida anche sulla gestione del dopo-guerra: se questo avvenisse, lo scenario di una frammentazione della Libia – più o meno violenta – diventerebbe più probabile. L’Europa ha tutto l’interesse ad evitarlo. Dovrà quindi utilizzare gli accordi economici, incluso lo scongelamento degli assets libici, per ottenere garanzie sul futuro unitario della Libia.
Negli ultimi mesi, l’Europa ha combattuto due guerre. Una guerra interna con altri mezzi sul destino dell’euro; una guerra esterna tradizionale, sui destini di un paese chiave del fronte Mediterraneo. Le tensioni sulla gestione dell’economia non hanno certo favorito le performance europee in politica estera. La posizione del paese centrale, la Germania, è quanto mai indicativa: economicista, si potrebbe in fondo dire così, sia in casa che nel vicino estero, come ha indicato la posizione distaccata di Berlino sulla guerra in Libia. La realtà, tuttavia, è che l’Europa vincerà o perderà queste due guerre insieme. Se l’eurozona si spaccasse su una linea Nord-Sud, la frattura economica e monetaria dell’UE diventerebbe parte dell’instabilità geopolitica del Mediterraneo. Uno scenario catastrofico per un paese come l’Italia ma che non si fermerebbe certo ai confini dell’Europa renana. Per chiunque ragioni sugli interessi a lungo termine del vecchio continente, fermare il crollo della Borsa e gestire il crollo del regime di Gheddafi sono solo apparentemente compiti contrastanti e lontani. La sicurezza degli europei dipende da entrambi. E dipende da noi: con la guerra di Libia, l’era della tutela americana è giunta al suo termine.