Quasi vent’anni sono passati dagli accordi di Dayton che dovevano sancire la fine delle guerre jugoslave (1991-1995), il conflitto fratricida che ebbe invece come lungo epilogo la guerra del Kosovo (1996-1999). Quei conflitti e quegli accordi hanno portato all’attuale definizione di confini, amministrazioni e competenze nella regione. Al mosaico che ha ridisegnato i Balcani un tempo omogenei sotto la bandiera della Federazione Jugoslava si è aggiunta solo l’unilaterale dichiarazione d’indipendenza del Kosovo dalla Serbia nel 2008.
Forse ad l’eccezione della Slovenia, la prima repubblica nel 1991 a dichiarare l’indipendenza da Belgrado – oggi alle prese con le incertezze dell’area euro – il resto delle repubbliche ex-jugoslave navigano ancora nelle acque di un dopoguerra latente. Infatti il conflitto degli anni Novanta ha avuto come protagoniste le generazioni oggi al potere, quelle comprese tra i quaranta e i sessant’anni, che lo percepiscono come l’evento fondatore del nuovo assetto etnico e politico.
Ciò è particolarmente vero per la Bosnia-Erzegovina. Questa è oggi divisa in due entità territoriali (la Federazione di Bosnia ed Erzegovina per musulmani e croati, e la Repubblica Serba di Bosnia per i serbi), con ben tre presidenti – uno bosniaco, uno serbo e uno croato – che si alternano ogni otto mesi, ed elezioni generali ogni due anni.
La Bosnia vista al di fuori delle cancellerie europee è un territorio dove ogni piccola comunità conta nel suo centro abitato almeno due cimiteri – in genere quello musulmano e quello ortodosso – con lapidi che recano in gran parte la stessa data di morte: 1993. Una terra dove le mine inesplose causano oggi ancora parecchi morti e feriti, perché a posarle non furono solo gli eserciti ma spesso singoli individui nella cornice di una guerra civile quartiere per quartiere, orto per orto (la Bosnia centrale rimane ancora oggi un territorio a forte vocazione rurale). Una società, infine, dove chi è stato nelle milizie ha riconsegnato la maggioranza delle armi in suo possesso ma ha nascosto, prassi assai diffusa, un AK-47 in casa per qualsiasi evenienza. È questo un dettaglio di pubblico dominio nella regione, che racconta bene la fragilità della situazione e la forza della memoria.
A conferma di ciò, anche la recente visita del ministro degli Esteri italiano a Pristina è stato un continuo richiamo agli anni della guerra vissuti in prima persona, quando Emma Bonino era molto impegnata nel dossier balcanico; ma la visita è stata naturalmente l’occasione per rinnovare un forte impegno verso l’integrazione europea del Kosovo (e di conseguenza della Serbia). Questa prospettiva di riconoscimento di Pristina, che ovviamente non riguarda solo l’Italia (con Roma, a favore dell’indipendenza del Kosovo, si erano immediatamente schierate anche Berlino, Londra e Parigi) è di tale portata che forse dice più cose sull’Europa che non sui Balcani medesimi.
Il Kosovo è paradossalmente un’enclave di un’enclave. Era cioè l’enclave albanese in territorio serbo, che dal momento dell’indipendenza ha trasformato la minoranza serba di Mitrovica in un’enclave ortodossa in territorio kosovaro. Una balcanizzazione diplomatica (il termine è qui più che mai appropriato) che ha fatto storcere il naso a molti osservatori e a svariati membri della Comunità Europea, contrari all’indipendenza di Pristina per evidenti ragioni interne, nonché di metodo: si pensi a Spagna (questione Paesi Baschi), Grecia (questione macedone), Cipro (questione turca), Romania e Slovacchia (minoranze magiare).
L’intervento militare della NATO in Kosovo, nel 1999, arrivò dopo lo scalpore, anestetizzato da dosi industriali di cinismo, per la tragedia di Sarajevo (tra il 1992 e il 1996), il principale assedio in Europa dal 1945 (con dodicimila morti), e per la strage di Srebrenica (nel luglio 1995), quando l’inazione delle truppe ONU e dei caccia occidentali aprirono la strada al massacro di circa ottomila civili musulmani perpetrato dalle truppe serbo-bosniache.
Intervenendo in Kosovo, NATO e comunità internazionale punirono probabilmente Slobodan Milosevic per gli anni di sostegno incondizionato ai serbi di Bosnia e vollero evitare che Belgrado riservasse ai civili albanesi quello che aveva riservato ai musulmani di Bosnia.
L’integrazione europea della Serbia e del Kosovo passa oggi dagli accordi di normalizzazione tra i due paesi (che il primo ministro Ivica Dačić abbia accettato di perdere il Kosovo, la culla dell’identità serba, per entrare in Europa è divenuto un mantra dei nazionalisti a Belgrado). Tali accordi, a ben guardare, per ora si limitano a organizzare gli aspetti minori della vita civile: dalle targhe automobilistiche all’organizzazione della burocrazia e dei visti consolari. Tuttavia nell’area rimangono alcune criticità assai gravi: la principale è quella legata alla criminalità.
È noto che il Kosovo sia lo snodo principale del narcotraffico tra Afghanistan ed Europa. È altrettanto noto che le forze di polizia serbe (risoluzione ONU 1244) non possono più agire nel paese: pertanto, la repressione del fenomeno spetta esclusivamente alle ambigue autorità di Pristina (ancora in via di formazione) e di fatto alla missione civile europea EULEX, che è competente in materia di polizia, giustizia e dogane, nonché alla KFOR, la missione militare della NATO.
Un altro interrogativo riguarda poi il criterio col quale si organizzeranno le elezioni per la minoranza serba nelle proprie municipalità. A metà giugno infatti un gruppo di lavoro a Bruxelles, sotto l’egida del capo della diplomazia europea Catherine Asthon, ha trovato un accordo di massima sulla creazione di un’Associazione delle Municipalità a maggioranza serba. Ma chi garantirà lo svolgimento delle elezioni, in quale data (ottobre o entro fine 2013?) e con quali poteri potranno agire gli eletti serbi rimane ancora nell’incertezza. Il Kosovo è ancora il terreno di costanti veti incrociati, Belgrado ad esempio nega all’ex provincia un prefisso telefonico autonomo, Pristina da parte sua vieta o limita pesantemente pellegrinaggi ai santuari ortodossi da sempre fulcro dell’identità serba.
Anche in Croazia, a ben guardare, domina la forza della memoria. Rivolta all’Europa sia per tradizione confessionale (cattolica) che per posizione strategica, a fine maggio Zagabria è stata scossa nel proprio dibattito interno dalle notizie giunte dall’Aja. Le condanne da parte del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia di sei alti esponenti dell’esercito per crimini commessi contro i musulmani in un disegno di “Grande Croazia” o di spartizione della Bosnia tra croati e serbi in funzione anti-musulmana, hanno suscitato reazioni opposte. A Zagabria sono state accolte con evidente rammarico e in ogni centro del paese sono apparse foto dei militari circondate dalla bandiera nazionale, mentre per molti osservatori extra- balcanici è stato un primo riconoscimento di atrocità commesse (campi di concentramento, assassini, stupri razziali) in ogni direzione nel complesso intreccio etnico della Bosnia dei primi anni Novanta. Quest’anno ricorre tra l’altro il ventennale dalla distruzione del secolare ponte di Mostar, simbolo di collegamento tra occidente e oriente che i croati polverizzarono a colpi di mortaio nel novembre 1993.
Anche la situazione macedone ci racconta qualcosa dell’Europa. La Macedonia ha infatti una richiesta in corso di adesione all’UE come alla NATO, ma in entrambi i casi l’opposizione Greca (che rivendica il possesso del nome ufficiale della regione) sta immobilizzando il processo d’integrazione, creando tensioni a carattere nazionalistico. Anche la Bulgaria si è detta contraria all’ingresso di Skopje nell’UE, accusando la giovane repubblica di revisionismo storico.
I Balcani insomma rivelano molto, dal punto di vista delle dottrine politiche, sulle sensibilità dell’Europa e financo su alcuni possibili motivi di tensione a livello transatlantico, non ultima la vicenda dell’uranio impoverito. È probabilmente solo ai primi passi l’inchiesta sui militari occidentali e sui civili balcanici che hanno patito forme estreme di tumore per i bombardamenti con proiettili di quel tipo (in particolare nell’area del Kosovo), meglio nota come “Sindrome dei Balcani”. La pesante eredità, umana ma anche politica, di questi episodi ci conferma come tutta la regione continui a rappresentare una sorta di cicatrice non del tutto rimarginata. È insomma la principale zona grigia della Realpolitik europea.