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L’eredità ambigua e multiforme di Chávez

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Con Hugo Chávez se ne va il dominus della politica venezuelana e un indiscusso protagonista della politica internazionale, non solo latino-americana. La sua scomparsa rappresenta un momento di svolta per Caracas, a prescindere da chi verrà dopo di lui.

Colui che per quasi un quindicennio (1999-2013) ha retto il Venezuela lascia un’eredità per molti aspetti controversa, in economia, politica interna e politica estera.

Innanzitutto, l’attenzione per le classi meno abbienti della popolazione. Chávez ha costruito la sua enorme popolarità su politiche economiche orientate in senso fortemente redistributivo: durante la sua presidenza (e in molti casi, per la prima volta nelle loro vite), ai milioni di poveri del Venezuela sono state garantite gratuitamente (o quasi) una casa, un’istruzione e un’assistenza sanitaria di ottimo livello (fornita da medici e insegnanti inviati da Cuba). Lo Stato ha pagato la crescente spesa sociale con i proventi del petrolio, di cui il paese latino-americano è tra i più ricchi al mondo. I risultati sono arrivati: riduzione della povertà, della disoccupazione, della mortalità infantile; aumento del reddito pro capite e dell’alfabetizzazione. Chávez non è stato l’unico leader latino-americano ad occuparsi delle classi più umili –  basti pensare al Brasile di Lula – né il Venezuela è stato l’unico a registrare dati positivi negli ambiti citati, visto che il trend di crescita ha riguardato tutta l’area. Il presidente appena scomparso ha rappresentato però una rottura con la classe politica del suo paese.

Il rovescio di questa medaglia è diventato evidente dal 2009, quando la crisi economica globale si è ripercossa sul Venezuela sia direttamente sia indirettamente, portando al calo del prezzo del petrolio. A fronte delle attuali difficoltà, Chávez ha dunque migliorato il tenore di vita delle classi più umili ma non è stato in grado di assicurare un modello di welfare (e più in generale di economia) sostenibile nel lungo periodo. Il paese ha infatti raggiunto livelli preoccupanti di deficit e inflazione; blackout e fasi di penuria di beni primari sono diventati frequenti; la criminalità è esplosa. Intanto,le sorti del Venezuela sono ancora indissolubilmente legate alle oscillazioni del prezzo del greggio e non si è sviluppato un settore industriale o terziario degno di nota.

Chávez ha spostato in avanti i confini dell’intervento dello Stato in economia, facendo più volte ricorso a nazionalizzazioni ed espropri – soprattutto nel settore dell’energia e delle materie prime – alla calmierizzazione dei prezzi, a controlli sul tasso di cambio. La compagnia petrolifera nazionale PdVSA è diventata uno strumento della politica economica chavista, oltre che una fonte di fondi privilegiata da cui attingere per i programmi di welfare. Questa impostazione ha riscosso il consenso delle classi più umili e di quanti – non solo in Venezuela – rifiutano l’impostazione liberista che l’America Latina aveva conosciuto e odiato ai tempi del Washington Consensus. Al contempo, essa ha scoraggiato gli investimenti esteri, soprattutto da paesi e imprese occidentali, Stati Uniti in testa. La capacità estrattiva della PdVSA è diminuita in questi anni, anche a causa del repulisti nel management dell’azienda voluto da Chávez dopo lo sciopero del 2002-3.

Il Venezuela è oggi un paese polarizzato sotto tutti i punti di vista (politico, economico, sociale) tra i sostenitori del movimento bolivariano e gli oppositori, che dopo il fallito tentativo del 2002 sembrano aver abbandonato le sirene golpiste. Pur avendo sempre vinto le elezioni in maniera regolare, Chávez, militare già autore di un fallito golpe nel 1992, ha governato puntando molto sul suo carisma e sul rapporto diretto con le masse e molto poco sul rispetto delle leggi e di alcuni basilari principi democratici. Sfruttando forzature e zone d’ombra nella Costituzione riscritta dai chavisti nel 1999 e approvata da un referendum popolare, il chavismo è diventato uno Stato nello Stato, occupando posizioni chiave in ogni ganglio del potere: dalle forze armate alla magistratura, dal parlamento – complice una legge elettorale rimaneggiata in modo da favorire il partito di Chávez – ai media. In Venezuela in questi anni non c’è stata una dittatura, ma è indubbio che in più occasioni il fronte chavista abbia abusato dei suoi poteri. Insulti e intimidazioni all’opposizione hanno aggravato la situazione. In un sistema così centralizzato nelle mani di poche persone (essenzialmente, una), la corruzione ha prosperato.

Il presidente appena scomparso è stato altrettanto dirompente in politica estera: a lui è ascrivibile un progetto geopolitico tendente a combattere la tradizionale egemonia degli Stati Uniti in America Latina e a impostare le relazioni internazionali su un nuovo paradigma: non più il binomio democrazia liberale – libero mercato caro a Washington, ma l’enfasi sul benessere sociale (prima che economico) dei popoli. L’obiettivo, sbandierato come i frequenti richiami all’opera del libertador Simón Bolívar, era realizzare una forma di unità latino-americana che escludesse gli USA. La creazione di istituzioni come l’UNASUR e la CELAC, che raggruppano rispettivamente tutti i paesi sudamericani e tutti quelli dell’emisfero occidentale tranne Stati Uniti e Canada, deve molto allo spirito di iniziativa di Hugo Chávez. La loro efficacia è ancora da valutare.

Il corollario del piano chavista, che aveva nella Cuba dei fratelli Castro il suo pilastro ideologico e nel petrolio con cui sussidiare una serie di alleati in America Centrale e Meridionale quello economico, era l’ascesa del Venezuela al rango di potenza regionale. Se fosse stato realizzato il Gasdotto del Sud, che nei sogni di Chávez avrebbe dovuto trasportare il gas venezuelano e boliviano fino in Patagonia, Caracas avrebbe avuto in mano le chiavi dell’indipendenza energetica latino-americana. Non sorprende che il paese più importante del Sudamerica, ossia il Brasile, abbia nicchiato su questo piano infrastrutturale, rimasto irrealizzato.

Il rapporto tra il Venezuela e Cuba è stato in questi anni particolarmente stretto. Chávez aveva un mentore in Fidel Castro, conosciuto nel 1994. E L’Avana ha fornito alla rivoluzione bolivariana linfa ideologica e “manodopera qualificata”: medici, infermieri, insegnanti, membri dei servizi segreti e delle forze armate sono stati inviati dall’isola al paese sudamericano per sostenere la rivoluzione bolivariana. In cambio Cuba ha ricevuto sussidi economici e petroliferi: circa 100 mila barili di crudo venezuelano vengono inviati quotidianamente a prezzo scontato al regime castrista, che ha trovato nel Venezuela di Chávez una seconda Unione Sovietica ed è riuscito così a garantirsi una sopravvivenza meno problematica. I due paesi hanno fondato l’Alleanza boliviariana per i popoli della nostra America (ALBA), successivamente integrata da Bolivia, Ecuador, Nicaragua e diversi Stati caraibici. L’Alba è stata il motore delle iniziative chaviste nel continente.

Parimenti importante, per quanto di segno opposto, il legame tra Venezuela e Stati Uniti. Chávez ha costruito parte del suo successo internazionale sulle invettive retoriche contro l’allora presidente George W. Bush, accusando Washington di imperialismo e non lesinando insulti nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca, reo ai suoi occhi di non aver condannato il tentato golpe anti-chavista del 2002. Il progetto eminentemente anti-statunitense della politica estera venezuelana non era confinato all’America Latina, anzi: nel resto del mondo, Chávez aveva intessuto ottime relazioni con chiunque fosse un rivale o un nemico degli USA. Dalla Libia di Gheddafi alla Corea del Nord, dall’Iran alla Siria, dalla Bielorussia alla Russia e alla Cina, il Venezuela ha cercato in questi anni di ricostruire su scala mondiale il fronte anti-imperialista che stava assemblando nel suo emisfero.

La retorica di Chávez, divenuta meno efficace dall’elezione di un presidente democratico e nero come Barack Obama, ha tenuto nell’ombra un dato sul rapporto tra Venezuela e Stati Uniti che vale più di mille parole: Washington è il primo partner commerciale e il primo acquirente del greggio di Caracas. I sogni rivoluzionari chavisti si reggevano finanziariamente sulla domanda di petrolio proprio degli USA. Quando questa è calata, vittima della crisi, ha tirato giù anche il prezzo dell’oro nero; il Venezuela è così entrato in una recessione durata due anni (2009-2010) che è stata una delle cause del minore protagonismo internazionale dell’ultimo periodo. Dopo quattordici anni di Chávez, l’influenza degli Stati Uniti sul destino economico del Venezuela è così ancora enorme.

Nel suo ultimo anno di vita, Chávez ha preso delle decisioni che indicano una transizione del Venezuela da paese anti-sistema a paese pro-sistema: su tutte, il tentativo di riavvicinarsi diplomaticamente a Washington e il ruolo di “accompagnatore” nelle trattative per la pace tra la Colombia e la guerriglia delle FARC. L’ingresso nel Mercosur ha avuto un valore politico di legittimazione del chavismo superiore a quello economico. 

Hugo Chávez è stato per certi versi un elemento di rottura nel panorama mondiale, per altri l’erede di un filone populista mai estintosi in America Latina; e la sua eredità è ambigua anche a seguito delle decisioni prese nella parte terminale della sua vita.

Le elezioni presidenziali sono previste per il 14 aprile. Chiunque le vincerà (è favorito il candidato chavista Nicolás Maduro) dovrà confrontarsi con il lascito di un protagonista del XXI secolo.