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Le strane Olimpiadi di Rio, tra crisi politica ed economica

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Cominciamo da una previsione. Se non ci saranno “lupi solitari” impazziti – l’ISIS ha iniziato qualche giorno fa a postare anche in lingua portoghese – che decideranno di immolarsi per uccidere qualche innocente, le Olimpiadi di Rio saranno tra le più divertenti e umanamente riuscite degli ultimi decenni. Nessuno come i brasiliani ha infatti la carica di simpatia e la predisposizione genetica alla festa e a far divertire gli ospiti, turisti o atleti che siano.

Certo, viste le strutture precarie perché finite all’ultimo minuto, come il Velodromo, il fatto che si gareggi al livello del mare e le distrazioni a cui sono sottoposti gli atleti al Villaggio Olimpico (ad ognuno/a sono stati donati 43 preservativi, una media che sfiancherebbe anche Superman e Wonder Woman) non bisogna aspettarsi troppi record battuti. Anche perché, e forse questa è la motivazione principale, dopo lo scandalo che ha coinvolto i russi, l’antidoping ai Giochi sarà una cosa seria.

Sull’organizzazione, invece, bisogna per forza di cose immedesimarsi nel contesto ed approcciare questa XXXI Olimpiade dell’era moderna  – la prima mai ospitata dal Sudamerica – con una filosofia che sappia unire il realismo magico di Gabriel García Márquez all’ironia del ragionier Fantozzi. Il contesto è infatti quello di una città, Rio de Janeiro, che al di là del marketing politico che servì a far aggiudicare i Giochi al Brasile, è da anni al bordo del collasso sociale: con un tasso di omicidi che supera i 15 morti ammazzati al giorno, fognature inesistenti per il 40% della popolazione, bande e milizie narcos che controllano il territorio delle favelas dove vive la metà della popolazione, e mancanza di infrastrutture in grado di collegare la zona Nord, più povera, con quella Sud, più ricca.

E allora, se sul campo di beach volley la risacca della marea dell’oceano lascia una gamba mozzata (come accaduto tre settimane fa), o nella baia di Guanabara, accanto a cui sorge Rio, ogni tanto galleggia un cadavere (come qualche giorno fa), non rimane che farsi una mezza risata di fronte alle dichiarazioni del presidente del Comitato Olimpico Internazionale: il tedesco Thomas Bach rassicura che le acque che ospiteranno le gare olimpiche “sono a norma OMS”. E riservare l’altra mezza risata agli specialisti intervistati dal New York Times, che hanno consigliato agli atleti di “tenere la bocca chiusa durante le gare, per evitare infezioni virali”. 

Certo è che l’Olimpiade – grande evento per antonomasia, con un pubblico tv atteso di oltre 3,6 miliardi di spettatori – mette a nudo lo “stato di salute” di una nazione perché, lo voglia o no il governo ospitante, gli occhi del mondo sono puntati proprio lì.

Purtroppo per il Brasile molte cose sono cambiate da quando, nel 2009, il Comitato Olimpico scelse proprio la città del Cristo Redentore per ospitare la più grande kermesse sportiva planetaria. All’epoca il PIL del gigante sudamericano cresceva a “ritmi cinesi” (+7,9% nel 2010), e tutti sembravano volere investire nel paese del samba, dove era in corso la rivoluzione – pacifica e redistributrice – dell’allora leader indiscusso della politica verde-oro, Luiz Inácio da Silva, noto ai più semplicemente come Lula.

Sette anni fa multinazionali italiane come Fiat e Tim ricavavano proprio dal “paradiso brasiliano” gran parte dei loro profitti per controbilanciare le perdite sul fronte interno, mentre la rivista britannica The Economist elogiava una settimana sì e l’altra pure le politiche socio-economiche lungimiranti del Brasile di Lula. Per capire il momento magico del Brasile che strappò i Giochi 2016 a Chicago, Tokio e Madrid, basti qui ricordare che nel 2009 l’81% degli articoli e dei reportage erano “positivi” o “molto positivi” per l’osservatorio “Boletim Brasil”, che analizza l’immagine del paese veicolata dai 15 principali media globali tra cui il China DailyEl País, il Financial Times, The EconomistThe New York Times e The Washington Post

Da due anni e mezzo a questa parte, invece, il Brasile è in profonda crisi economica: il pil è crollato del 10% negli ultimi 30 mesi – un record negativo assoluto da oltre un secolo – la disoccupazione cresce da 15 mesi, i senza lavoro sono quasi 12 milioni, mentre l’inflazione sfiora il 9%. Ma, soprattutto, dall’aprile del 2014, il paese è al centro di una serie di inchieste giudiziarie – la più celebre delle quali si chiama “Lava Jato”, una sorta di Mani Pulite moltiplicata per cento – che hanno portato in carcere per corruzione e tangenti molti dei principali imprenditori. Ciò ha paralizzato il giro d’affari, nazionale e internazionale, di corporation sino a pochi anni fa considerate dei “gioielli”, come la compagnia petrolifera Petrobras ed il gigante dell’ingegneristica e delle costruzioni Odebrecht. Di pari passo, in carcere sono finiti gli ultimi due tesorieri del PT, il Partito dei Lavoratori fondato da Lula nel 1980, e sono stati indagati molti politici dei principali partiti di coalizione che, sino al 2014, avevano garantito una seppur sempre più risicata maggioranza parlamentare alla Presidente Dilma Rousseff.

Non erano certo queste le aspettative, quando nel 2009 Rio ottenne i Giochi. “Non ho mai sentito così tanto orgoglio in Brasile” disse in quella occasione Lula – oggi finito anch’egli indagato nell’ambito di Lava Jato. Sette anni fa tutto sembrava possibile, mentre ora il Brasile è bloccato in una crisi – politica, morale ed economica – senza precedenti. Come non bastasse, poi, la Presidente  Dilma Rousseff (rieletta al secondo mandato nell’ottobre 2014) è stata allontanata pro tempore lo scorso maggio e sottoposta ad un tortuoso procedimento d’impeachment per avere truccato i bilanci dello stato: il suo destino definitivo sarà deciso dal Senato a partire dal 29 agosto. E il Presidente ad interim Michel Temer ha già dovuto sostituire vari Ministri accusati di corruzione, mentre una serie interminabile di scandali e di tangenti miliardarie hanno prosciugato le casse del paese.

L’uomo che portò le Olimpiadi in Brasile quando era tra le personalità politiche più ammirate al mondo, Lula, non sarà presente alla cerimonia inaugurale dei Giochi. Ha altro a cui pensare, al pari della sua delfina Dilma, assente annunciata pure lei. E così, il Brasile anfitrione sarà rappresentato alle prime Olimpiadi sudamericane di tutti i tempi solo da Temer – che ha già detto di essere “pronto ad una salva di fischi contro di lui”.

Staremo a vedere se accadrà. Di certo, queste Olimpiadi non potevano celebrarsi in un momento peggiore per il Brasile, eterno “paese del futuro” che avrebbe tutte le qualità umane e le risorse economiche per decollare, fuorché una classe dirigente all’altezza delle sue enormi potenzialità.