international analysis and commentary

Il voto nero e il problema razziale

463

“Non potremo mai essere soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori della brutalità della polizia”. Era il 1963 ed era Martin Luther King, ma è una frase che ancora oggi, 53 anni dopo, si adatta alla realtà degli Stati Uniti. La differenza rilevante è che a documentare quelle stesse brutalità ci sono ora videocamere indossabili e smartphone. Ma a quanto servono davvero?

Negli anni ’60, le proteste contro quelle violenze, testimoniate in tv, condussero il presidente Democratico Lyndon B. Johnson a firmare il “Civil Rights Act” (1964) per tentare di mettere la parola fine alla segregazione razziale nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Un atto storico per il processo di emancipazione dei neri, poi scosso e funestato nel 1968 dall’uccisione di King e da nuovi omicidi e vasti movimenti di protesta.

Ma, sebbene l’effetto dei live streaming sia più dirompente della tv, l’America che si appresta a celebrare le elezioni presidenziali, il prossimo 8 novembre, vive l’estate più calda degli ultimi anni in fatto di violenze razziali. Tanto sangue non si vedeva almeno dagli scontri del 1992 a Los Angeles, quando al verdetto di assoluzione dei poliziotti che uccisero il tassista afroamericano Rodney King la comunità nera e parte dell’ispanica risposero con sei giorni di proteste, che si chiusero con 55 morti e 2000 persone ferite. Come se la storia iniziata con la lotta di King non fosse affatto conclusa.

Nonostante sia scomparsa la classificazione etnico-razziale da ogni modulistica pubblica e privata negli ultimi quindici anni, essere “nero” in America equivale ancora – come negli anni ’60 – ad una discriminazione tout court. Secondo l’associazione per i diritti civili dei neri negli Usa (NAACP), gli afroamericani vengono arrestati sei volte di più dei bianchi e sono il 58% dei reclusi nelle carceri, sebbene rappresentino un quarto della popolazione. Arresti che avvengono a seguito di un controllo automobilistico – e incidono nella ricerca di un impiego, di una casa, nell’accesso ai sussidi finanziari per il college. E determinano iper-criminalizzazione e disparità di trattamento che il movimento Black Lives Matter, nato all’indomani dell’uccisione da parte della polizia di Trayvon Martin e Micheal Brown, ha cercato di contrastare con proteste pacifiche, incanalando la rabbia della comunità nera, in oltre 1400 sit-in, marce, veglie in 50 città d’America. D’altronde, le morti “nere” per mano della polizia sono state 152 solo quest’anno, su un totale di 613; 299 quelle di bianchi, cioè il 48%, benché questa componente corrisponda al 77% della popolazione statunitense.

L’attivismo di Black Lives Matter non ha però influito sull’escalation in corso da quattro anni. Alle vittime già note si sono aggiunte in queste ultime settimane nuovi nomi (e non solo tra i neri). Alton Sterling e Philando Castile, uccisi in Louisiana e in Minnesota, erano uomini di colore la cui esecuzione è stata trasmessa in diretta sui social network ma, oltre a loro, anche altri hanno perso la vita a causa dell’irruenza della polizia pur non ricevendo altrettanta attenzione. Mentre ha occupato la scena l’uccisione di 8 agenti (sia bianchi che neri) per mano dell’ex riservista dell’esercito Micah X. Johnson e dell’ex marine Gavin Long, entrambi afroamericani, in occasione – rispettivamente – della protesta pacifica a Dallas di BLM contro la violenza della polizia e nel corso di un’imboscata a Baton Rouge (Louisiana), dove era stato ucciso due settimane prima Sterling.

La cronaca degli eventi, le reazioni e anche la terminologia usata per descriverli fanno quasi pensare a una guerra civile in corso in America. Tuttavia, la stessa polizia ha escluso che Long e Johnson fossero in connessione con le proteste di Black Lives Matter. Inoltre, l’accesso facile alle armi – negli Stati Uniti, più semplice di quello per le cure mediche – è sicuramente una delle aggravanti del fenomeno, e contribuisce a farne qualcosa di più complesso, doloroso, e mediaticamente difficile da maneggiare.

Il senso di disfatta diffuso nell’opinione pubblica negli USA è però netto: un pessimismo che esclude soluzioni condivise e che è appesantito dalla delusione per gli otto anni di mandato del primo Presidente di colore della storia americana. Paradossalmente, è proprio alla fine di questo periodo che le lancette della disuguaglianza razziale sembrano tornate a ben prima degli anni Duemila. L’elezione di Obama nel 2008 – all’insegna del change – apriva un mandato carico di promesse per un’America, si sperava, più giusta con tutti.

Pochi giorni prima dell’uccisione di Castile e Sterling, mentre una giovane mamma girava per le vie di New York filmando gli agenti in cerca di risposte con cui preparare suo figlio affetto da autismo ai possibili attacchi della polizia, il Pew Research Center ha diffuso un’analisi secondo la quale il 60% degli afroamericani giudica molto negative le relazioni tra bianchi e neri. E non è solo questione di rapporti ma di squilibri nel sistema, sostengono gli intervistati: le disparità vanno dall’approccio brutale della polizia ai difficili prestiti bancari, dall’emissione di mutui ai salari più bassi rispetto ai connazionali bianchi. E sebbene l’88% degli afroamericani creda che si debba fare ancora molto per cambiare la situazione, la metà di loro è scettico sul reale cambiamento (43%).

Il pessimismo grava anche dall’altra parte: è vero che il 53% dei bianchi ritiene si possa fare ancora qualcosa per migliorare la situazione, ma il 38% crede che il treno del cambiamento sia già passato e l’11% che, più semplicemente, le disparità non si potranno mai sanare. A poco valgono le rassicuranti parole dell’uscente Obama e della candidata democratica Hillary Clinton su un paese “non disgregato dalle violenze”: il 40% degli afroamericani valuta il razzismo come il fattore più divisivo della società americana, prestando il fianco al Repubblicano Donald Trump, che ha inveito contro un paese sull’orlo di una crisi di nervi.

Ma i dati del Pew sottolineano anche che il 70% dei “white Americans” (tra i quali forse anche Trump stesso) ritiene la questione razziale basata sui pregiudizi personali degli individui e non sistemica. E comunque, per il 58% dei neri, il paese presta troppa poca attenzione alla questione, disinteressandosi delle disparità sociali ed economiche che ne conseguono.

Il Census Bureau (l’istituto di statistica USA) a tale proposito ha misurato la media del salario di un afroamericano (dati 2014): 43mila dollari l’anno contro i 71mila di un bianco. E le differenze si riproducono anche sulla proprietà (dati 2015): solo il 43% degli afroamericani possiede una casa contro il 72% dei bianchi; così come povertà e disoccupazione sono doppi nella comunità di colore. E certamente i fattori economici e di disparità sociale incidono, anche viceversa, su tutto il resto, per il Naacp: ad esempio, il 12% degli afroamericani fanno uso di droga (di solito i più poveri) ma rappresentano il 32% degli arrestati per droga; così come il 35% dei bambini neri tra i 7 e i 12 anni sono sospesi o espulsi dalla scuola rispetto al 20% degli ispanici e al 15% dei bianchi. È quello che viene chiamato sistema “tolleranza zero”: sentenze più severe, fin da piccoli (gli afroamericani subiscono il 26% degli arresti giovanili, con un 44% della popolazione under 25 in carcere), e abusi del diritto più frequenti.

Anche per il sostegno al movimento Black Lives Matter la polarizzazione tra la popolazione ricalca quella a livello politico: il 40% dei bianchi sostiene il movimento. E tra questi solo il 10% sono elettori Repubblicani, i quali ritengono invece, in maggioranza, che di questi temi si parli già troppo. Non è un caso che i politici della destra americana siano stati avari di dichiarazioni e commenti, su eventi del genere. Di fatto, le uniche parole di buon senso da parte del GOP sono arrivate dal leader conservatore, tra gli avversari acerrimi di Obama, Newt Gringrich: “oggi essere neri in America è diventato più pericoloso”.

L’arena politica, in generale, non si è occupata efficacemente del problema, rimandando in sostanza al prossimo presidente la bega razziale. E in questi pochi anni il movimento Black Lives Matter ha cercato di colmare il vuoto di rappresentanza. Nonostante la mancanza di una leadership identificabile, l’eccesso di rimando ai social media, l’accusa di scarsa focalizzazione sulle violenze di strada tra bianchi e neri e nessun controllo né sull’uso del nome né dell’hashtag, BLM incontra il consenso di 2/3 degli afroamericani.

E non importa se la consapevolezza della lotta sia condivisa da tutti i suoi sostenitori, perché la politica sta provando a metterci il cappello. Hillary Clinton deve aver studiato con attenzione i numeri del Pew: il 28% degli americani giudica fallimentare la politica contro le disparità razziali di Obama ma gli elettori democratici (64%) vogliono sostenere il movimento, addirittura sovvenzionarlo (29%); e persino il 38% degli ispanici – altro grosso bacino elettorale liberal – sostiene gli obiettivi di BLM e un suo connubio con la politica.

Per questo la candidata del Partito Democratico ha ribadito la sua posizione a favore della comunità nera. In effetti, gli elettori di colore sono decisivi negli swing state (Obama raccolse il 90% del loro voto, proporzione però irripetibile). E Clinton, dopo essersi fatta intervistare insieme alle mamme di Black Lives Matter, ha invitato queste ultime alla Convention di Philadelphia che l’ha incoronata candidata. Come sostiene Jamal Simmons, consulente del Partito Democratico, nessuno meglio di loro può parlare alle donne e agli afroamericani – i due gruppi sociali su cui si basano le speranze di vittoria di Hillary.