international analysis and commentary

Le sfide per i nuovi governi arabi e il dilemma americano

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I recenti episodi di proteste – in alcuni casi violente – contro le rappresentanze americane e occidentali in vari paesi islamici hanno pochissimo a che fare con le scelte americane in politica estera. E ancor meno con quelle dei paesi europei.

L’ondata di proteste scoppiata sembra soprattutto rendere inutili, in un colpo solo, gli sforzi compiuti dal presidente Obama per imprimere una svolta positiva ai rapporti con il mondo arabo-islamico. Per quanto criticabili in alcuni aspetti, tali sforzi sono oggettivi: dal discorso del Cairo del 4 giugno 2009 (tutto incentrato sulla coesistenza e sulla cooperazione tra Occidente e Islam) al ritiro definitivo delle truppe americane dall’Iraq, dalla exit strategy afgana (entro il 2014) al sostegno “discreto” per le transizioni in Tunisia ed Egitto, fino alla leadership from behind nella campagna libica per la cacciata di Gheddafi.

La questione di fondo che è riemersa con le recenti manifestazioni di piazza è una forma di frustrazione di larghi strati delle società arabe che viene sfruttata e incanalata politicamente da movimenti oggi in lotta per il potere. La fortissima sensibilità sui simboli religiosi è genuina, ma ciò che conta di più è come essa assuma la forma specifica di un senso di umiliazione per mano dell’Occidente.

All’origine delle primavere arabe vi erano decenni di malcontento popolare nei confronti di regimi che negavano i più basilari diritti politici e civili e al contempo non riuscivano ad assicurare alcuna forma di prosperità economica. È ormai evidente, a più di un anno di distanza dai fatti che hanno cambiato l’assetto politico del Medio Oriente, che quelle rivolte non sono ancora riuscite ad avviare i processi di risanamento economico su cui i movimenti hanno fatto leva per sollevare le masse; mentre il percorso della democratizzazione è inevitabilmente lungo e spesso tortuoso. Siamo dunque di fronte, quasi certamente, ad un problema di aspettative tradite, che a sua volta genera nuovo malcontento.

A doversi confrontare con questa fase non sono più regimi autoritari o semi-autoritari in grado di manipolare direttamente le manifestazioni di piazza (come anche di reprimerle). Ora siamo infatti di fronte a un quadro confuso in cui i governi in carica – giovani e in molti casi fragili – devono gestire il dissenso, l’ordine pubblico, e simultaneamente i propri rapporti politici con gli elettori – compresa una “base” molto ideologizzata attorno a simboli religiosi.

La strumentalizzazione politica degli ultimi eventi è allora un rischio ma anche un’occasione ghiotta per molti leader, nuovi e vecchi.  

È chiaro, ad esempio, che la tentazione di cavalcare un’onda populista di anti-americanismo è quasi irresistibile per un leader come Morsi, che cerca di non farsi aggirare sul versante conservatore dai salafiti. Al discorso rassicurante pronunciato recentemente dal presidente egiziano di fronte all’Assemblea Generale e alla retorica conciliante, hanno fatto eco le dichiarazioni dei Fratelli musulmani (principale sponsor del neo-eletto presidente), che per bocca del loro portavoce hanno chiesto l’incriminazione degli autori del video e le scuse formali da parte del governo statunitense. Al di là della propaganda evidentemente forzata (secondo cui un intero governo dovrebbe scusarsi per le azioni o le dichiarazioni di un suo cittadino) la delicatezza della transizione in corso deve indurre anche gli stessi Fratelli musulmani a valutare rapidamente i seri rischi dell’attuale fase politica e incorporarli in una deliberata scelta di governo. In tale ottica, la recente decisione del procuratore generale del Cairo di spiccare 7 mandati di arresto nei confronti di alcuni cristiani copti residenti fuori dall’Egitto, oltre che di un pastore statunitense (il tristemente noto reverendo Terry Jones), appare come un tentativo di incanalare il dissenso delle piazze piuttosto che una seria presa di posizione. 

Lo stesso vale, pur in condizioni in parte diverse, per le varie componenti al governo in Tunisia e per il mosaico che si sta faticosamente cercando di comporre in Libia. Nel primo caso, Ennhada, il partito vincitore delle prime elezioni tunisine, si è unito al coro di proteste anti-americane e ha ulteriormente inasprito la sua posizione dopo la pubblicazione dell’ultimo numero di Charlie Hedbo – un magazine satirico francese che sulla vicenda del video ha incentrato la sua ultima edizione, riprendendo alcune scene di Innocence of Muslims. Senza dimenticare l’atteggiamento equilibrato tenuto finora dalla maggioranza tunisina nei dibattiti costituzionali, una scelta di governo imporrebbe un netto schieramento a favore della (o contro la) libertà d’espressione. È ovviamente una questione molto spinosa per un partito d’ispirazione islamista, ma il riconoscimento del diritto alla libera espressione è preliminare rispetto alla condanna di specifiche scelte di comunicazione, e dovrebbe comunque accompagnarsi strettamente a un’eventuale posizione critica sul merito. In altre parole, il principio della tutela di un diritto viene prima della legittima critica di merito: creare un’eccezione per fare salva la sfera religiosa può portare con sé conseguenze indirette molto negative.

Anche in Libia (dove ha avuto luogo l’attacco che ha portato alla morte dei diplomatici americani) si è verificato chiaramente un tentativo di  strumentalizzazione politica, ma in un contesto molto intricato. Le prime analisi parlavano di una presunta responsabilità di Ansar al-Sharia, un gruppo islamista militante, ma i leader del gruppo hanno negato ogni coinvolgimento nei fatti (oltre a smentire, in modo meno credibile, qualsiasi legame con al Qaeda). Hanno perfino ipotizzato che l’agguato al consolato americano potrebbe essere opera dei lealisti di Gheddafi, visto il ruolo molto attivo svolto dall’ambasciatore Stevens nella campagna contro l’ex dittatore.

Il gruppo militante bengasino non ho finora accettato di trattare con il nuovo governo e deporre le armi: l’attribuzione di responsabilità rispetto alla tragica vicenda, dunque, potrebbe essere visto come il tentativo da parte dell’esecutivo di screditarlo. Come si vede, il quadro libico è decisamente complesso.

Di fronte alle proteste di questo settembre, un altro aspetto cruciale è la forza dell’effetto-contagio: lo abbiamo visto all’opera a suo tempo in occasione delle primavere arabe, ma nessun movimento o gruppo sociale ha il monopolio dell’imitazione, e dunque il fenomeno si ripresenta perché le comunicazioni sono molto più agevoli e rapide che in passato. I social network, e quel minimo di organizzazione necessario per portare in piazza migliaia di persone, sono a disposizione di chiunque voglia utilizzarli – moderati e radicali, pacifisti e violenti.

Intanto si aggrava il dilemma strategico per Washington: come combinare una posizione proattiva sulla tutela dei propri interessi in alcuni paesi-chiave – a cominciare ovviamente dalla sicurezza delle rappresentanze diplomatiche e dei privati cittadini – con la massima cautela rispetto al “fattore USA” nella politica interna del mondo arabo-islamico. Va dato atto all’amministrazione Obama di aver fatto ogni sforzo per non entrare direttamente nelle dinamiche interne delle transizioni in corso, cercando il giusto punto di equilibrio tra disengagement e difesa dei propri interessi strategici. Tale equilibrio è diventato ora più difficile a causa delle inevitabili reazioni ai fatti di questo settembre 2012: dalle dichiarazioni ufficiali di condanna allo schieramento di forze navali di fronte alle coste libiche fino al possibile (probabile, dovremmo dire) uso dei droni per colpire chi sarà ritenuto responsabile di attacchi organizzati. Tanto il dilemma di policy quanto gli strumenti che saranno utilizzati da Washington sembrano comunque “bipartisan” – e  dunque, in realtà, poco direttamente influenzati dall’esito delle elezioni presidenziali di novembre. Non a caso, dopo alcune uscite inziali quasi avventate sulla vicenda libica, anche la retorica tutta elettorale di Mitt Romney sembra essersi fatta più cauta.