Da tempo negli ambienti repubblicani si è preso atto della “questione latina”, vale a dire della difficoltà del GOP ad intercettare il voto ispanico. È un bacino elettorale in crescita costante a livello nazionale (il 19% degli aventi diritto al voto) e assai influente in vari swing states (Florida, Nevada, Colorado, New Mexico) presumibilmente decisivi per l’esito delle presidenziali di novembre. Persino la netta vittoria alle elezioni di medio termine del 2010 aveva evidenziato come il voto dei latinos avesse salvato i democratici dal tracollo in più di un caso, pur mettendo in luce nuove figure come Marco Rubio, senatore della Florida, e Brian Sandoval, governatore del Nevada.
I tentativi repubblicani di dialogo con questa comunità si sono tradizionalmente affidati al linguaggio dei “valori tradizionali” (famiglia, religione, sicurezza, lavoro) che, secondo Karl Rove e altri influenti strateghi del partito, accomunerebbero la base del partito e l’elettorato ispanico. A questo si è aggiunta, più recentemente, la speranza di approfittare della frustrazione degli ispanici rispetto a due questioni: l’operato dell’amministrazione Obama sull’immigrazione, tema particolarmente caro alla comunità di origine messicana, e i colpi inferti dalla crisi economica, come mostrano i dati più recenti resi noti dal Pew Hispanic Center (PHC). D’altra parte queste aspirazioni sono state finora vanificate dalle posizioni adottate da esponenti repubblicani a Washington e in molti Stati, soprattutto sull’immigrazione: sono posizioni che la maggioranza degli ispanici ha inevitabilmente percepito come ostili. E, in generale, dalla propensione di buona parte dei leader locali e nazionali del partito ad una retorica scarsamente inclusiva e a tratti aggressiva nei confronti delle minoranze, rivelatrice della difficoltà ormai quasi strutturale del GOP ad ampliare il proprio blocco sociale e demografico di riferimento.
La “questione latina” riguarderà soprattutto lo sfidante di Barack Obama nelle elezioni di novembre, ma è già un fattore in queste primarie. In realtà, di fronte alla pancia conservatrice del partito e ai sostenitori del Tea Party, la maggior parte dei candidati ha sposato posizioni intransigenti. Mitt Romney ha dichiarato che da presidente porrebbe il veto al DREAM Act, già bloccato dal Congresso: si tratta della misura introdotta da Obama che porterebbe alla regolarizzazione di coloro che per almeno due anni abbiano frequentato l’università o servito nelle forze armate (Romney ha detto di essere favorevole, in linea di massima, alla parte che riguarda il servizio militare). Ron Paul si è schierato per l’abrogazione della cittadinanza automatica a chi nasce in territorio americano, garantita dal XIV emendamento della Costituzione. Herman Cain si era spinto a proporre la costruzione di una barriera elettrificata lungo il confine con il Messico. Solo Newt Gingrich ha sostenuto la necessità di attivare percorsi selettivi per una parte dei milioni di irregolari residenti nel paese, e non a caso è stato il primo a corteggiare il voto latino con messaggi elettorali in spagnolo.
È facile ipotizzare che queste prime schermaglie non abbiano guadagnato consensi al GOP, e tuttavia non vanno sopravvalutate. Gli ispanici non sono “single-issue voters”: anzi, un rilevamento del PHC dell’ottobre 2010 aveva mostrato come l’immigrazione sia la questione più importante solo per il 31% degli ispanici intervistati, mentre l’istruzione è prioritaria per il 58%, l’occupazione lo è per il 54% e la sanità per il 51%.
Il caso della Florida ha mostrato con evidenza proprio la complessità e eterogeneità del panorama politico latino. Qui la fetta più consistente e influente della popolazione ispanica è quella di origine cubana (28.6%): questa si differenzia dagli indirizzi prevalenti tra gli ispanici nel resto del paese per il legame storico con i repubblicani, dovuto a ragioni di politica estera e ideologiche, e per l’attenzione relativamente scarsa alla legislazione sull’immigrazione, dovuta alla corsia preferenziale per la legalizzazione di cui gode da decenni. Seguono i portoricani, tradizionalmente vicini ai democratici, ma cittadini americani e quindi anch’essi poco toccati dal tema immigrazione. Non sorprende quindi che tra i votanti ispanici delle primarie – il 14% del totale – abbia stravinto Romney, il sostenitore delle “espulsioni volontarie”, con un margine di più di venti punti percentuali su Gingrich (54% a 29%). Ha pagato, per Romney, la scelta di focalizzarsi sull’economia in uno stato fortemente colpito dalla crisi immobiliare e finanziaria, che è al quinto posto tra gli stati dell’Unione per pignoramenti e ha una disoccupazione superiore alla media nazionale. Resta da valutare il suo appeal al di fuori delle primarie, che in Florida escludono gli indipendenti. Al momento un sondaggio Univision/ABC lo dà perdente contro Obama (40% contro 50% in Florida, 23% contro 68% a livello nazionale). Del resto, vi sono segnali di insofferenza verso i candidati del partito da parte di alcuni ambienti del mondo latino, come i giovani di origine cubana, assai meno legati dei loro padri all’establishment repubblicano, e gli evangelici, infastiditi dai toni estremi dei Tea Partiers sulle questioni sociali.
Per Romney è però vitale riportare a casa il voto ispanico della Florida dopo la svolta del 2008, quando Obama aveva prevalso su John McCain (57% contro 42%).
Interessante in questa prospettiva è anche il Nevada (dove il 4 febbraio Romney si è imposto nettamente): anch’esso duramente colpito dalla crisi, è lo Stato con la disoccupazione più alta del paese (balzata dal 5.5 % del gennaio 2008 al 13%). Anche qui la minoranza ispanica è stata la più colpita in termini non solo di reddito ma anche di istruzione, come rivelano i dati sull’espulsione dal sistema scolastico, e per molti si è materializzato lo spettro dell’uscita dalla appena conquistata middle class. Come in altri stati del Sud-Ovest la componente preponderante è di origine messicana, di gran lunga la più numerosa livello nazionale sia tra i residenti regolari, sia tra gli irregolari, e la più colpita dalla linea dura contro gli undocumented lanciata nella vicina Arizona dalla controversia legge (SB 1070), poi imitata altrove. E la più delusa dalle promesse di riforma del candidato Obama di quattro anni fa. La “questione latina” si ripresenta qui e negli stati circostanti con contorni nuovi, più insidiosi per il favorito Romney che, impegnato a scrollarsi di dosso l’etichetta di “moderato del Massachusetts”, non ha finora articolato un messaggio esplicitamente diretto all’America ispanica. Un’omissione che potrebbe risultare efficace per le primarie, ma fatale a novembre quando, secondo molti osservatori, il candidato repubblicano difficilmente potrà arrivare alla Casa Bianca senza ottenere almeno il 35% del voto latino.