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Le operazioni aeree israeliane in Siria: successo tattico e svista strategica?

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Dopo quasi due anni di quiete sul confine con la Siria, il 3 maggio Israele ha interrotto la tregua con due attacchi aerei. In realtà, già il 30 gennaio Gerusalemme aveva svolto alcune azioni mirate contro obiettivi sensibili siriani: un deposito di munizioni, un’unità della difesa anti-aerea siriana e un centro di ricerche scientifiche a Jamraya, a ridosso del confine libanese. Questo centro è stato nuovamente colpito il 5 maggio, mentre due giorni prima il target era un carico di armi russe giunte attraverso l’aeroporto di Damasco. Il sito di Jamraya non è un centro di ricerche qualsiasi, avendo lo status di centro d’eccellenza protetto dal segreto di stato. I suoi impiegati non possono comunicare con l’esterno, così come avviene per il centro nucleare israeliano di Dimona.

Se al momento si esclude che la Siria abbia investito in programmi nucleari, è invece probabile che Jamraya sia un deposito sotterraneo di armi del regime. Secondo indiscrezioni, si troverebbero lì tutte le ultime armi non convenzionali a disposizione dell’esercito regolare. Oltre alla posizione strategica, ideale per trasportare armi in Libano, Jamraya rappresenterebbe anche la sede del quartier generale di alcune brigate della Guardia presidenziale. L’intervento israeliano, che ha causato oltre 40 vittime tra le forze armate siriane, dunque, avrebbe potuto riguardare il sito in toto o voler colpire solo alcune delle sue funzioni.

Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya’alon, si è affrettato a dichiarare alla stampa che l’attacco aereo non voleva generare un’escalation militare, e che Israele continua a non volere essere trascinato nella guerra civile siriana, ma che sarebbe stato motivato dalla volontà di ribadire le “linee rosse” di Gerusalemme, in particolare il trasferimento di armi sofisticate a organizzazioni e gruppi terroristici come Hezbollah (tra cui i missili Scud D e Fateh 110, di lunga gittata e buona accuratezza, i missili SA-17 anticarro e i P-800 Yakhont‏ antinave, nonché armi chimiche) e la violazione della sovranità israeliana sulle alture del Golan. Insomma, si sarebbe trattato di un avvertimento al regime di Bashar al-Assad di “non sconfinare”. È in sostanza l’interpretazione fornita tra gli altri da Kenneth Pollack, esperto della Brookings Institution di Washington, secondo cui Israele starebbe testando la debolezza del regime di Assad in relazione alla violazione del suo spazio aereo (e di quello libanese). Secondo questa ricostruzione, l’attacco aereo rappresenterebbe in effetti un avvertimento all’Iran sia rispetto al riarmo di Hezbollah che sulla questione nucleare.

È però ancora più probabile, come afferma Nathan Sachs (sempre della Brookings), che Israele abbia voluto approfittare della crisi siriana e del caos in cui versa il regime per eliminare precisi obiettivi militari (depositi di armi e, soprattutto, i razzi Fateh 110), senza comunque stravolgere il quadro complessivo della guerra civile in corso in Siria.

In ogni caso, ci sono pochi dubbi che la questione iraniana sia cruciale nei calcoli di Israele: l’imminente visita in Siria di Ali Akbar Salehi, il capo della diplomazia iraniana, potrebbe indicare la possibilità che la Repubblica islamica, oltre al sostegno diplomatico, possa sostenere direttamente il regime siriano qualora i ribelli sunniti si avvicinino troppo ai centri nevralgici del potere. Tale opzione sarebbe in linea con le dichiarazioni del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, a proposito della presenza di “esperti iraniani presenti in Siria da decine di anni, in assenza (al momento) di forze militari, perché è il popolo siriano che combatte, ma se la situazione dovesse farsi più pericolosa, i movimenti di resistenza ed altre forze sarebbero obbligati ad intervenire in maniera (più) efficace nel conflitto”. Queste forze includerebbero le milizie di Hezbollah, diversi contingenti iraniani e quei gruppi palestinesi tuttora legati ad Assad, come il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina.

A seguito dell’attacco israeliano, la Repubblica islamica si è mostrata per ora più cauta degli altri paesi arabi, che hanno condannato espressamente l’azione come contraria al diritto internazionale. La Lega Araba, l’Egitto, il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia concordano infatti sulla posizione che, sebbene il regime di Assad sia delegittimato, la Siria resti un paese sovrano la cui debolezza non debba andare a profitto di Israele. Si fa anzi notare come un’eventuale aggressione israeliana su più vasta scala potrebbe fare il gioco del regime, rafforzandolo piuttosto che fiaccandolo, con il rischio di ricompattare intorno alla famiglia presidenziale un’opinione pubblica divisa. 

Assad ha al momento escluso risposte militari all’attacco israeliano, anche perché al momento le condizioni sono tutt’altro che favorevoli, in piena guerra civile e con Israele in stato di massima allerta di sicurezza (comprese due batterie antimissili Iron Dome già  dispiegate sul confine nord). Per spingere Damasco a una risposta militare non sarebbero sufficienti nemmeno operazioni di più larga scala o maggiore valenza simbolica, così come non c’è stata alcuna reazione ad attacchi o provocazioni passate come il sorvolo del Palazzo presidenziale da parte di jet israleini nel 2006 e l’attacco aereo ad un presunto reattore nucleare nel settembre del 2007. Tuttavia, più della possibilità di un’eventuale reazione militare, è la strumentalizzazione politica dell’attacco che dovrebbe preoccupare Gerusalemme. Già tre settimane fa, nell’intervista che Assad aveva rilasciato il 17 aprile alla TV Al-Ikbariya, Bashar si era presentato ancora una volta come l’unica barriera e garanzia, da un lato, al dilagare del settarismo confessionale, dall’altro, all’ennesima invasione neocoloniale degli Stati Uniti in Medio Oriente. Oggi, a questi due potenti strumenti retorici, Assad può più realisticamente aggiungere il “pericolo sionista” come una minaccia sempre in agguato. Un elemento, questo, ancora in grado di garantire ampi margini di consenso, ed una delle ragioni per le quali l’intelligence israeliana aveva cercato finora di tenere Israele al di fuori del conflitto. 

In molti si chiedono oggi se la distruzione di un carico di missili per Hezbollah valesse davvero il costo politico di rischiare il ricompattamento dell’opinione pubblica siriana in funzione nazionalista. Non tutti in Israele la pensano come Jonathan Spyer dell’Herzliya Interdisciplinary Centre sul fatto che “i vantaggi legati alla caduta di Assad siano più importanti dei potenziali rischi di sicurezza.” Molti sono, anzi, scettici sul fatto che vi siano scenari positivi ad attendere Israele nel dopo-Assad.

È probabile, allora, che l’ultima serie di attacchi possa essere spiegata come il frutto di un insieme di fattori eterogenei, tra cui la volontà di “impartire una lezione alla Siria”, l’obiettivo tangibile della distruzione di armi sofisticate, ma anche il timore effettivo che Hezbollah possa trasferire le nuove armi a gruppi palestinesi attivi in Israele. In altre parole, il vero rischio potrebbe essere che, mentre Assad è impegnato a combattere la “sua” guerra civile, Hezbollah voglia aprire un “secondo fronte” per alleggerire la pressione sulla Siria: magari sfruttando la mobilitazione dei molti palestinesi scoraggiati riguardo a una ripresa del processo di pace o di fronte al lento collasso dell’ANP.