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Le molte fratture della Turchia verso le nuove elezioni

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La chiamata a elezioni anticipate, fissata dal presidente Recep Tayyıp Erdoğan per il 1 novembre rappresenta un unicuum nella storia politica della Turchia. È la prima volta che tale prerogativa viene utilizzata da un capo dello Stato, dopo il superamento del termine costituzionale di 45 giorni per la formazione del governo. Uscito indebolito dalle elezioni del 7 giugno scorso, il Partito del presidente (Partito della Giustizia e dello Sviluppo – AKP) con il 40,9% dei voti e 258 seggi in parlamento, non ha avuto i numeri per formare un governo monocolore. I primo ministro Ahmet Davutoğlu non è riuscito a trovare un partner di coalizione al fine di ottenere il voto di fiducia in parlamento e passare la soglia dei 276 seggi per la formazione di un governo di maggioranza.

Mentre il processo di consultazione con tutti i partiti all’opposizione (CHP, Partito Repubblicano del Popolo; MHP, Partito Nazionalista del Popolo e HDP, Partito Democratico del Popolo, cioè la formazione pro-curda di sinistra) si sono avviati il 9 luglio scorso, sin da subito si è profilata l’eventualità di una “grande coalizione” con il CHP che però nell’ultimo round dei colloqui è approdata in un nulla di fatto. Le principali proposte dei Repubblicani vertevano sulla gestione dell’agenda estera e soprattutto su una revisione della politica mediorientale e siriana; sul controllo degli affari interni e del ministero della Giustizia – con conseguente rinvio a giudizio dei ministri coinvolti in casi di corruzione – e infine sulla riforma del sistema dell’istruzione che avrebbe previsto speciali restrizioni alle scuole religiose Imam Hatip. La condizione sine qua non implicava ad ogni modo il ritiro del programma di riforma presidenziale voluto da Erdoğan, rimarcando la più strenua opposizione all’ingerenza del capo dello Stato negli affari politici.   

È seguito anche un secondo incontro tra i vertici dell’AKP e quelli del MHP che, non avendo prodotto risultati soddisfacenti per la creazione di un governo di minoranza, ha spinto il primo ministro Davutoğlu a riconsegnare il mandato cinque giorni prima della scadenza fissata per il 23 agosto.

L’unica opzione percorribile è stata dunque la creazione di un governo ad interim che, data la contrarietà sia di CHP che MHP a ricoprire cariche all’interno del nuovo gabinetto, è composto di fatto da deputati dell’AKP e dell’HDP con la partecipazione degli indipendenti. Secondo la Costituzione turca il governo di transizione deve essere composto da membri provenienti da tutti i partiti rappresentati in parlamento con una distribuzione proporzionale dei seggi. In una composizione a 26 membri, 11 ministeri sono gestiti all’AKP e due (Affari Europei e Sviluppo) dall’HDP, mentre il resto è rimasto indipendente. Le assegnazioni dei dicasteri hanno fatto però emergere serie spaccature in seno alle correnti politiche: nel blocco nazionalista la nomina a vice primo ministro di Tuğrul Türkeş – figlio del padre fondatore del MHP e vice presidente dello stesso partito – ha sollevato le ire del leader Devlet Bahceli, che ha indetto una commissione di inchiesta disciplinare con la richiesta della sua immediata espulsione dal partito; nella lista HDP il socialista Levent Tüzel ha invece rifiutato l’incarico di ministro, reiterando le critiche alla politica curda dell’AKP.  

Ciò nonostante, il ruolo attivo dell’HDP dimostra la volontà di compensare la parziale perdita di legittimità dovuta alla ripresa dell’azione terroristica del PKK (la formazione militante del  Partito dei Lavoratori del Kurdistan, designata da Ankara e dai governi occidentali come fuorilegge) e alla repentina escalation di violenza nel sud-est anatolico. Pur non avendo mai realmente reciso i legami con il PKK, la formazione di sinistra libertaria e pro-curda guidata da Selhattin Demirtaş, nelle scorse elezioni è uscita dalle urne con il 13% del supporto popolare, presentandosi al pubblico come il principale fattore non solo dell’indebolimento dell’AKP, ma anche della momentanea deriva del progetto presidenziale. Appare ovvio, dunque, che se nella straordinaria tornata elettorale di novembre l’HDP non riuscirà a passare la soglia di sbarramento del 10% l’AKP potrebbe riguadagnare il proprio potere. Questo è certamente l’obiettivo del partito guidato da Ahmet Davutoğlu, e tuttavia alla luce del crescente sentimento anti-curdo tra i turchi nazionalisti, per l’AKP attrarre nuovamente il supporto guadagnato in precedenza potrebbe essere molto difficile. Dato lo stallo del processo di pace e le stringenti misure di sicurezza nelle regioni del sud-est del paese pare infatti verosimile che i curdi serrino le proprie fila attorno al programma dell’HDP. Ne discende che se l’AKP non riuscirà ad ottenere voti sufficienti per modificare la costituzione, pur riuscendo a formare un debole governo monocolore, la Turchia rischia di diventare nuovamente il teatro di proteste di massa. In tale prospettiva la sostenibilità della pace interna – oltre che un ritorno a tassi di crescita economica che diano confidenza agli investitori – appare un’ipotesi lontana.

La volatilità della lira turca (TL), oggi ai minimi storici rispetto al dollaro e all’euro, è uno dei fattori allarmanti per la stabilità politica del paese che oggi si trova in una sorta di subbuglio generale: il fallimento del processo di pace con i curdi e il ritorno alle armi è senza dubbio il problema più urgente, ma le linee di frattura all’interno della società sono sempre più profonde e stanno diventando difficilmente riconciliabili. La polarizzazione è un problema storico per la Turchia, con l’asse destra-sinistra, quello turco-curdo, quello alevita-sunnita; ma oggi a tutto ciòi sovrappone la divisone tra i sostenitori dell’AKP e i loro rivali, ed è riemersa la questione del terrorismo ideologico di stampo marxista-leninista incarnata dall’azione violenta del DHKP-C (Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo) che nelle ultime settimane ha colpito il Consolato americano di Istanbul e altri simboli politici legati all’occidente. È il riposizionamento di Ankara nella “lotta al terrore” e la nuova parte attiva all’interno della coalizione anti-ISIS guidata da USA, con relativa concessione della base aerea di Incırlık, ad aver innescato una pericolosa spirale di violenza, provocando la morte di più di 60 militari, 400 combattenti del PKK e un considerevole numero di civili. In un contesto così frammentato non vi è poi da sottostimare la minaccia diretta del Califfato, che per la prima volta dalla sua formazione ha intimato la conquista di Istanbul, apostrofando il presidente Erdoğan come un “infedele”.

Considerate le numerose tensioni vissute dal paese, i presupposti per la prossima campagna elettorale non sono rosei. Mentre l’AKP subordina i crescenti problemi del paese all’assenza del sistema presidenziale, la Turchia – così divisa e circondata da guerre e crisi economiche – è oggi più che mai nell’urgente condizione di essere guidata da un governo che applichi politiche sostenibili – e soprattutto inclusive – per affrontare le numerose sfide che ha davanti.