international analysis and commentary

La trappola siriana dell’Occidente

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C’è una bestia in trappola nel Medio Oriente: noi, cioè l’Occidente. Vorrebbe fuggire, ma non può. Per molti l’immagine non ha senso perché l’Occidente non dovrebbe neppure esistere, o comunque ha cessato di esistere. Invece per il resto dell’umanità l’Occidente esiste e vederlo in cattive condizioni provoca un misto di gioia e di paura. Conosciamo le ragioni della gioia; la paura è giustificata perché una bestia in trappola può far del male a sé e agli altri. La complicazione è che la bestia è democratica: ha bisogno di consenso e quindi è lenta e inefficiente. Anche ciò è motivo di gioia per chi considera la democrazia un lusso, come i diritti umani. 

La più semplice definizione di una trappola è avere obiettivi incompatibili, ma insistere nel volerli perseguire tutti con intransigenza. Vorremmo combattere l’ISIS, liberarci di Assad, fare la pace con l’Iran ma anche impedirne l’espansione, impedire alla Russia di riprendere piede in Medio Oriente e mantenere buoni rapporti con i paesi sunniti dell’area. Da noi ci sono due categorie di persone che ci complicano la vita: le anime belle e i penitenti. Le prime non hanno obbiettivi ma emozioni, in generale dettate dalla televisione. Poco tempo fa bisognava assolutamente abbattere Assad che bombarda il suo popolo con i gas; oggi bisogna distruggere l’ISIS. Le due cose sono in parte incompatibili, ma le anime belle le vogliono a giorni alterni con la stessa indignazione e intensità. I penitenti hanno una visione più semplice: è tutta colpa nostra, del passato coloniale e dei crimini dell’America. Per non parlare dei famigerati Sykes e Picot (i protagonisti dell’accordo del 1916 sui confini coloniali in Asia Minore), di cui fino a poco tempo fa ignoravano l’esistenza ma che sono diventati gli zii di Molotov e Ribbentrop. Qualsiasi cosa facciamo, anche quando (più spesso) siamo inerti, sbagliamo; non perché sbagliamo, ma perché siamo noi.

Il problema è che i nostri obiettivi sono incompatibili, ma anche giusti. D’altro canto, i nostri interlocutori nell’area ne hanno uno solo e non sembrano disposti a rinunciarvi. Nemmeno noi possiamo rinunciare. Colpire l’ISIS è oggi una priorità; non ha più molto senso rinunciare a colpirlo massicciamente in Siria per il timore di rafforzare Assad. D’altro canto la Siria non ritroverà mai un minimo di stabilità se Assad è rimesso in condizione di massacrare il suo popolo. La Russia è un interlocutore indispensabile, ma una sua presenza militare nella zona è inaccettabile. La pace con l’Iran è importante, ma lo è anche la sicurezza di Israele. I timori dei governi sunniti non possono essere sottovalutati, ma è inaccettabile che continuino a proteggere e finanziare movimenti jihadisti.

Una caratteristica della trappola in cui ci troviamo è che gli schieramenti sono mutevoli e contraddittori. Non è necessariamente un male. La prima guerra mondiale diventò possibile solo quando le grandi potenze consolidarono attorno a sé alleanze stabili. L’altro insegnamento di quella sciagurata vicenda è che le guerre avvengono raramente per volontà delle grandi potenze, ma piuttosto quando queste sono prigioniere delle debolezze dei propri alleati minori.  

Dalla trappola bisogna comunque uscire. L’America, la Francia e la Gran Bretagna sono tentate di farlo usando la forza militare in modo più massiccio. L’esperienza di Iraq e Libia, operazioni militari prive di prospettiva politica, provoca una comprensibile diffidenza da parte degli altri europei. D’altro canto anche questi ultimi (compresi noi italiani) dovrebbero fare un esame di coscienza sull’errore di aver praticamente smantellato il loro dispositivo militare che ormai è accettato dall’opinione pubblica solo quando serve a distribuire caramelle ai bambini; è un’aspirazione nobile, ma siamo i soli a coltivarla.

Il Medio Oriente sembra avviato a combattere la sua guerra dei trent’anni; è probabilmente impossibile porvi termine rapidamente, ma se ne possono almeno contenere gli effetti. Nel mondo di fine Ottocento, si sarebbe convocata una conferenza delle grandi potenze, che avrebbe trovato soluzioni ciniche ma realiste. Non dimentichiamo che, con l’eccezione di Bismarck, anche allora l’Europa e l’America erano governate da mediocri. Qualcosa di simile, sul modello di ciò che si tenta di fare con la Libia, sarebbe necessario oggi con USA, Europa, Russia, Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Iran. Ridisegnare carte geografiche sarebbe impossibile e condurrebbe a conseguenze ancora più nefaste, ma dovrebbe essere possibile trovare un accordo che garantisca i legittimi interessi di ciascuno e permetta di contenere l’endemica instabilità di Siria e Iraq. Tutti dovrebbero limitare le proprie ambizioni. Un accordo internazionale sul problema dei rifugiati dovrebbe ovviamente farne parte. Sarebbe una soluzione provvisoria e precaria, ma consentirebbe di concentrare lo sforzo militare sull’ISIS; in questa prospettiva, il futuro di Assad non deve diventare un totem per nessuno.

Henry Kissinger ci insegna che operazioni simili sono possibili solo quando i partecipanti sono interessati a ristabilire l’ordine e a evitare che i conflitti degenerino. Nel nostro caso, ciò dovrebbe essere vero per tutti, anche se sono legittimi dubbi sulla Russia. Ha collaborato sul nucleare iraniano, ma le sue recenti iniziative nell’area creano timori giustificati e Putin rischia di compiere passi, come in Ucraina, da cui non può più tronare indietro. D’altro canto, riconoscere alla Russia un suo ruolo politico in Medio Oriente non è impossibile; dopo tutto, nel pieno del Grande Gioco, la Gran Bretagna riconobbe alla Russia un ruolo in Iran. Un simile risultato non piacerebbe né alle anime belle né ai penitenti, ma ce ne faremmo una ragione; con la saggezza di Don Alfonso in “Così Fan Tutte”, “Non può ciò che vuole, vorrà ciò che può”.