international analysis and commentary

Le frontiere nordafricane sotto pressione

771

Le questioni di politica interna assorbono gran parte del dibattito internazionale relativo ai paesi del Nord Africa, come dimostrano molte analisi – pur acute e ben informate – sull’impatto delle Primavere arabe. Così il tema delle frontiere tra gli Stati della regione, a discapito del suo peso, rimane spesso sullo sfondo.

La Libia e l’Algeria sono i due stati maggiormente esposti in termini di confini. Algeri, ancor più di Tripoli, assume un valore paradigmatico, specie nell’insorgenza e nella gestione dei problemi di controterrorismo. La cartina geografica ci ricorda infatti come i vicini dell’Algeria siano ben sette (Tunisia, Libia, Niger, Mali, Mauritania, Sahara Occidentale e Marocco), che salgono a otto considerando il Mar Mediterraneo col suo affaccio sul continente europeo. Ciascuno di questi confini rappresenta una distinta area non solo d’interesse ma spesso di crisi, in corso o latente, con riverberi sul quadro interno.

Abdelaziz Bouteflika, al potere in Algeria dal 1999, è l’ultima personalità rimasta che abbia  una comprovata statura regionale. Appena due anni fa il quadro appariva del tutto differente con Libia, Tunisia ed Egitto rappresentate dalle vecchie élite e dai loro discussi, ma pur sempre carismatici, leader: Gheddafi, Ben Ali e Mubarak. La salvaguardia dell’unità nazionale è il fattore che ha permesso all’Algeria, delegando pieni poteri a uno stato forte nelle situazioni di maggior impatto, di superare o perlomeno arginare tanto il pericolo fondamentalista quanto la domanda di riforme proveniente dal basso.

In una prima fase furono usati i militari invalidando le elezioni (1992) e passando per la guerra civile scaturita dalla reazione islamista. Nella fase più recente, a seguito delle rivolte nei paesi vicini, sono stati utilizzati i proventi del petrolio per mitigare, con un piano massiccio di sussidi pubblici basati sull’authoritarian bargain (contrattazione autoritaria), il vento delle Primavere. Oggi, con una situazione interna sostanzialmente stabilizzata, l’Algeria può e deve occuparsi delle proprie frontiere – che appunto coincidono con altri sette stati – dove permangono criticità significative.

Sul fronte del Mali si osserva la risacca dell’operazione Serval; il riflusso cioè di quelle armi e di quelle forze jihadiste appartenenti a diverse sigle respinte dai francesi e dalle truppe panafricane verso nord che trovano adesso rifugio a ridosso dell’immenso confine algerino e soprattutto libico. Il risultato sono azioni eclatanti, come il sequestro di 800 ostaggi nel sito BP di In Amenas in gennaio (costato 67 vite), compiuto proprio per rappresaglia verso l’intervento francese. Il commando (katiba) denominato “Quelli che firmano col sangue” dal suo fondatore algerino Mokhtar Belmokhtar era una costola della principale formazione terroristica di tutto il Maghreb, cioè AQMI, anch’essa a DNA algerino. Bisogna ricordare come l’Algeria non avesse accolto con entusiasmo l’intervento occidentale in Libia, consapevole delle successive difficoltà che si temevano nel controllare i movimenti di gruppi terroristici nei pressi del confine. Cosa poi puntualmente accaduta (In Amenas dista appena 30km dalla frontiera libica).

Sempre in Libia, nella zona del deserto di Ghat, le intelligence occidentali danno per certo che AQMI sia riuscita a fornire aiuti ed expertise per la nascita di una cellula libica dell’organizzazione, dalla quale è logico dedurre sia partito l’attentato di Bengasi dell’11 settembre 2012 contro il consolato americano. Anche i gruppi espulsi recentemente dalla Somalia si stanno dirigendo in quell’area della Libia per riarmarsi, a conferma di come il deserto di Ghat stia diventando la nuova oasi per diverse sigle jihadiste.

Spostandoci in territorio tunisino, nella regione montuosa di Jebel Chaambi e di Kef (a soli 40km dall’Algeria), pochi giorni fa i militari di Tunisi hanno ingaggiato combattimenti contro formazioni terroristiche d’ispirazione salafita. Salafita è la stessa AQMI (non a caso, prima di aderire ad Al-Qaeda, si chiamava GSPC: Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento) che ha raccolto l’eredità della storica formazione algerina degli anni Novanta: il GIA (Groupe Islamique Armé). Un sodalizio, quello tra salafiti algerini e tunisini che rischia di sgretolare il confine nazionale contrapponendogli quello confessionale; questo spiega anche la collaborazione tra i due governi, impegnati congiuntamente a sradicare le milizie islamiste dalle aree rurali come dai centri cittadini. L’Algeria ha deciso di impedire ai molti predicatori salafiti provenienti dai paesi del Golfo di tenere sermoni pubblici, specie nell’est del paese dove questi religiosi godono di un vasto seguito (in Tunisia, peraltro, la minaccia della predicazione salafita è ancora maggiore).

Il confine marocchino si caratterizza invece per il retaggio di vecchie ruggini: la guerra della sabbia per Tindouf e Bechar (1963) e la guerra per il Sahara Occidentale (a partire dal 1975). Ancora oggi il confine rimane chiuso per volere di Algeri, dopo gli attentati a Marrakech del 1994 per i quali il Marocco incolpò i servizi segreti algerini.

Il Sahara Occidentale, regione occupata da Rabat in spregio al diritto internazionale, vive dell’appoggio algerino concesso al popolo saharawi. Algeri biasima l’occupazione marocchina, con il suo muro di sabbia e mine anti uomo lungo migliaia di chilometri attraverso il deserto, vedendola come l’ostacolo principale a una soluzione d’equilibrio per tutto il Maghreb. I recenti cablogrammi di WikiLeaks  hanno inoltre rivelato come le alleanze reali siano in parte diverse da quelle del protocollo diplomatico: con gli USA scettici rispetto all’indipendenza per i saharawi e la Francia, a sorpresa, più vicina alle posizioni dell’Algeria che a quelle del Marocco.

La situazione del Sahara Occidentale è in generale molto contradditoria, come dimostrano i contratti commerciali che l’Unione Europea, pur condannando l’occupazione marocchina, ha firmato con Rabat per lo sfruttamento della pesca nei mari dei territori occupati. Algeri stessa, pur opponendosi alla politica espansionistica del Marocco, vuole in realtà un riavvicinamento con il regno di Mohammed VI e potrebbe per questo allentare la pressione sulla controparte circa i diritti calpestati dei saharawi. La cornice di un riavvicinamento potrebbe essere data dall’Unione del Maghreb Arabo, un organismo che finora ha prodotto risultati molto scarsi, e di cui fanno parte Algeria, Marocco, Tunisia, Libia e Mauritana. Il suo rilancio, pensano in molti, offrirebbe una concreta piattaforma di dialogo e politiche comuni.

Infine, il Mediterraneo: la porta verso l’Europa. Le relazioni dell’Algeria con la Francia di Hollande sono buone, e solida è stata l’alleanza tra ex-colonizzatore ed ex-colonia contro la minaccia fondamentalista in Mali. L’Algeria ha offerto lo spazio aereo ai caccia di Parigi, in una coalizione militare che ha il sapore di un capovolgimento epocale. Un passo ulteriore verso la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi, dopo la visita del capo di stato francese ad Algeri del dicembre 2012 e le pubbliche scuse per le repressioni e i massacri operati durante la guerra d’indipendenza.

Così, a oltre dieci anni dal referendum per la riconciliazione nazionale voluto e vinto plebiscitariamente da Bouteflika per sanare il dramma della guerra civile (150 mila morti), il presidente algerino ha riscosso con Hollande un ulteriore risultato in termini di rapprochement da giocarsi sul piano internazionale. Si tratta di una posizione diplomatica solida, insomma, dalla quale cercare di mitigare anche sul piano commerciale gli effetti della recessione europea sulle casse di Algeri a fronte di minori esportazioni di greggio – una contrazione rischiosa che rischia di far vacillare i piani di “welfare autoritario” del regime, decisivi a loro volta per calmare gli umori della piazza interna e potersi concentrare proprio sui pericoli che minacciano i vasti confini della nazione.