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Le dinamiche interne cinesi e le proteste contro il Giappone

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“I cittadini cinesi devono ringraziare il governo giapponese, perché per la prima volta hanno potuto promuovere una manifestazione su larga scala nel proprio paese” – ha affermato il dissidente e noto artista Ai Weiwei, riferendosi alla disputa in corso tra la Cina e il Giappone. Ha poi aggiunto che in Cina non esistono proteste organizzate spontaneamente dai cittadini. Alla luce di tale constatazione, fa molto pensare la libertà concessa ai cinesi durante le manifestazioni anti-giapponesi e le modalità con le quali si sono verificate. È più che legittimo il sospetto che il riaccendersi della contesa per la sovranità sulle isole Senkaku (o isole Diaoyu, secondo il nome cinese) sia stato semplicemente un pretesto del governo di Pechino per sviare l’attenzione dai problemi di politica interna, e in particolare dal delicato passaggio di successione che sta avvenendo in modo molto caotico.  

La controversia sulla sovranità dell’arcipelago (composto da cinque isole disabitate situate nel Mar Cinese orientale e amministrate dalla prefettura di Okinawa) si è riaccesa con l’annuncio del governo nipponico di negoziati per acquisire i diritti di proprietà, dopo aver goduto dal 2002 dell’usufrutto in base a un accordo di affitto da un privato giapponese. Dunque, la recente decisione di Tokyo non altera di fatto la situazione per quanto concerne il controllo delle isole; ma è stata sufficiente a scatenare l’immediata reazione della Cina (oltre che di Taiwan) che rivendicano la propria sovranità. Vi sono assai probabilmente alcune considerazioni economiche dietro questa scelta poiché, dai primi anni Settanta, le prospezioni indicano nei fondali la presenza di giacimenti di gas e petrolio che sarebbero ora accessibili con le nuove tecnologie.

Al di là delle tensioni diplomatiche – che hanno spinto l’amministrazione Obama ad incoraggiare apertamente i due governi, compreso quello di Tokyo, a moderare i toni – la controversia è significativa per aver provocato una importante mobilitazione popolare da entrambe le parti. Sul versante giapponese, alcune delle più importanti imprese operanti in Cina – Toyota, Honda, Nissan, Canon, Panasonic – hanno fermato la produzione nei loro impianti per motivi di sicurezza e hanno esortato i lavoratori a ridurre gli spostamenti nel paese.

Sull’altro versante, migliaia di cinesi si sono riversati nelle piazze per manifestare contro il Giappone, in concomitanza con l’81° anniversario dell’incidente di Mukden risalente al 1831 – quando l’esplosione della ferrovia giapponese divenne il pretesto per invadere la Cina, un episodio che ancor oggi è ricordato come “il giorno dell’umiliazione”. Vari elementi rendono plausibile l’ipotesi di un ruolo attivo delle autorità cinesi nell’appoggiare le manifestazioni. Prima di tutto, le proteste sono avvenute quasi in contemporanea in oltre 100 città, ed è quindi presumibile che siano state organizzate attraverso internet; alla luce della famigerata censura del web che le autorità cinesi applicano alla rete, sembra impossibile che non siano intervenute qualora avessero voluto farlo. Non sono state prese misure di censura molto frequenti in Cina come blocco dei motori di ricerca dopo la digitazione di parole-chiave, come in questo caso “isole Diaoyu”. Tra l’altro, proprio nel mese di settembre è stata imposta una censura parziale di questo tipo alle ricerche in rete legate al nome di Xi Jinping (il successore designato dell’attuale presidente Hu Jintao), che era scomparso dalla scena pubblica per alcuni giorni.

In secondo luogo, le manifestazioni erano dirette su obiettivi specifici, come l’ambasciata giapponese a Pechino, a conferma che non si è trattato di un fenomeno spontaneo e casuale. Le proteste hanno dunque puntato obiettivi “sensibili” e sono state spesso violente, con assalti a ristoranti e negozi, eppure la polizia antisommossa non sembra aver fatto nulla per impedirli, e non ci sono stati arresti dopo i fatti; in effetti alcune testimonianze parlano della distribuzione di bottigliette d’acqua ai manifestanti. In terzo luogo, l’età media dei partecipanti andava dai venti ai trent’anni – si tratta dunque di giovani cittadini che naturalmente non hanno una memoria diretta delle dispute storiche tra Cina e Giappone – e in ogni caso il governo di Pechino ha descritto gli episodi parlando di “spirito patriottico”. In breve, più che a un atteggiamento di tolleranza sembra di essere di fronte a un vero coinvolgimento governativo.

È chiara la valenza internazionale di una questione di sovranità: rivendicare le isole Senkaku significa per Pechino dare una prova di forza in una vasta area dell’Oceano Pacifico. Ma i risvolti interni sono altrettanto rilevanti: con il 18° Congresso Nazionale del Partito Comunista ormai alle porte, l’attenzione internazionale si è concentrata sulla confusione e la mancanza di procedure trasparenti che ha finora caratterizzato le discussioni sulla futura leadership. Più specificamente, alcuni osservatori hanno visto nelle proteste di piazza una mossa per favorire indirettamente uno dei membri del Politburo, Zhou Yongkang, che è attualmente segretario del Comitato Politico e Legislativo, cioè l’organo predisposto (tra l’altro) a vigilare sulla sicurezza pubblica. Zhou è considerato molto vicino a Bo Xilai – altro membro del Politburo caduto in disgrazia ed esautorato la scorsa primavera – ma il suo destino politico è ancora incerto. Secondo questa ipotesi, le proteste sarebbero state organizzate con l’obiettivo di dimostrare che il Comitato (dunque il suo capo) è fondamentale per mantenere l’ordine pubblico. In effetti, l’operazione potrebbe essere riuscita in termini di peso politico, visto che Zhou Yongkang si è appena recato in Afghanistan per incontrare il presidente Hamid Karzai – segnando la prima visita ufficiale cinese di alto livello in ben 46 anni. 

L’intera vicenda conferma che i meccanismi interni della leadership cinese sono assai complessi, ma anche che le questioni internazionali possono intrecciarsi molto strettamente con la lunga transizione politica in atto.