La crisi che dal 2007 ha attanagliato l’economia mondiale per almeno due anni, si è nel corso del 2010 trasformata in crisi europea. Un piccolo paese come la Grecia ha fatto emergere tutti i problemi di governance che affliggono il vecchio continente, e i difetti di costruzione della moneta unica.
Il resto del mondo nel frattempo si è incamminato verso una lenta ripresa. È una ripresa flebile, soggetta a ricadute, bruschi arresti, e vulnerabile ad ogni tipo di errore di politica economica; ma con l’eccezione dell’eurozona, il cammino sembra imboccato. Interrogarsi sulle cause della crisi è condizione preliminare per discutere in modo coerente delle prospettive future.
Il dibattito politico e accademico si concentra essenzialmente sulle cause contingenti della crisi, che sono ben note: essa è stata scatenata dalla combinazione letale di due fattori, cioè la deregolamentazione del sistema finanziario e l’eccesso di liquidità.
La progressiva deregolamentazione del sistema finanziario (in particolare statunitense) è cominciata negli anni ottanta ed è terminata nel 1999 con l’abolizione da parte dell’amministrazione Clinton del Glass Steagal Act[1]. La deregolamentazione ha consentito il proliferare di innovazioni finanziarie sempre più sofisticate e opache che avrebbero in teoria dovuto distribuire e minimizzare il rischio, ma che in realtà hanno comportato la sempre maggiore divaricazione tra la presa di rischio e il rendimento atteso degli investimenti finanziari. Questo ha indotto gli investitori, a tutti i livelli, ad assumere (a volte senza esserne pienamente consapevoli) comportamenti speculativi, e ad aumentare in maniera eccessiva il rapporto tra indebitamento e fondi propri (leverage).
Il secondo fattore che ha contribuito alla crisi è l’eccesso di liquidità causato in parte da fasi di politica monetaria (soprattutto negli Stati Uniti) eccessivamente accomodante, ma soprattutto dagli eccessi di risparmio di intere regioni del pianeta, come l’Asia orientale, i paesi del Golfo, e parte dell’Unione Europea. L’effetto combinato di mercati finanziari estremamente fluidi e di una massa di risparmio a basso costo in cerca di collocazione, è stato l’esplosione dell’indebitamento di famiglie e imprese americane; a questo si è aggiunto quello del governo degli Stati Uniti, coinvolto in due guerre estremamente costose (Iraq e Afghanistan), e in politiche di riduzione delle tasse per gli strati più ricchi della popolazione.
L’eccessivo indebitamento è stato l’elemento centrale della crisi quando in seguito alle difficoltà di un settore di dimensione relativamente ridotta (il mercato dei prestiti subprime, stimato a circa 2.000 miliardi di dollari, a fronte di una ricchezza delle famiglie americane di circa 60.000 miliardi nel 2007) si è innescata una corsa alla ricapitalizzazione (il deleveraging) e quindi una caduta generalizzata del prezzo delle attività finanziarie. Il collasso del settore finanziario si è poi trasmesso all’economia reale tramite la restrizione del credito da parte di banche in difficoltà, e la caduta della domanda di consumatori e imprese la cui ricchezza si era volatilizzata.
Queste cause sono certamente importanti; ma come la febbre, la crisi è solo un sintomo, che certamente va trattato, ma senza dimenticare di diagnosticare, e curare, la malattia sottostante. Le cause profonde della crisi vanno ricercate negli elementi che hanno alimentato, negli scorsi decenni, la progressiva accumulazione di global imbalances. Siamo arrivati all’estate 2007 in una situazione di fragilità strutturale, causata dal progressivo accumularsi di squilibri di segno opposto. Gli Stati Uniti (ma anche la periferia dell’eurozona) avevano un eccesso di domanda sulla produzione interna, e quindi un deficit commerciale sempre più importante (che nel 2006 ha superato il 6% del PIL). Questo deficit è stato finanziato dagli eccessi di risparmio di altre regioni. Nei paesi dell’est asiatico (soprattutto la Cina), la mancanza di un welfare state adeguato e di un sistema finanziario affidabile hanno condotto ad un eccesso di risparmio precauzionale di imprese e famiglie. A questo si aggiunga che, dopo la crisi del 1997, le autorità di quei paesi hanno iniziato una politica di accumulazione di riserve per far fronte ad eventuali nuove crisi valutarie o finanziarie. In alcuni paesi europei, l’eccesso di risparmio è stato causato dall’inerzia della politica economica e da tassi di investimento insufficienti, che hanno depresso la domanda legando la crescita dell’area alle sole esportazioni.
Questi opposti squilibri si sono compensati per quasi un ventennio, dando luogo ad un equilibrio globale la cui fragilità è stata rivelata proprio dalla crisi. Ma fin tanto che essi non verranno riassorbiti, non ci sono speranze di una crescita strutturalmente solida. È peraltro illusorio pensare che un mero riallineamento dei tassi di cambio risolverebbe il problema. In particolare, fintanto che l’eccesso di domanda domestica degli Stati Uniti persiste, una rivalutazione dello yuan cinese cambierebbe la composizione del deficit statunitense (più con Vietnam e Cambogia, per esempio, e meno con la Cina), ma non lo ridurrebbe.
Per quanto possa apparire paradossale, le cause degli squilibri domestici sono comuni ai paesi con eccesso di risparmio e a quelli con eccesso di domanda. Una causa importante degli squilibri domestici è il processo di redistribuzione che si è avviato a partire dai primi anni ottanta, e la diseguaglianza crescente nella maggior parte dei paesi sviluppati, emergenti, e in via di sviluppo[2]. Questo aumento della disguaglianza ha assunto forme diverse. In alcuni paesi (gli Stati Uniti ad esempio), ad imporverirsi sono state le classi medie, mentre in altri (la Cina) sono stati i poverissimi. Ma in tutti la redistribuzione ha avvantaggiato i ricchi e soprattutto i ricchissimi (l’uno per cento più ricco della popolazione), dando luogo a quella che alcuni hanno definito la “Superstar Economy[3]”. Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie a quelle più agiate, vale a dire da chi spendeva in consumi la quasi totalità del proprio reddito a chi invece ne risparmia una parte consistente, ha provocato una riduzione della propensione media al consumo, e un aumento della massa di risparmi. Questo ha avuto due effetti che ritroviamo nella crisi attuale: Il primo è un’enorme massa di liquidità che ha alimentato fiammate speculative e bolle (borsistiche, immobiliari) in serie; il secondo è una cronica carenza di domanda aggregata.
Come si spiega tuttavia che uno stesso fenomeno, cioè un aumento della diseguaglianza e la conseguente compressione della domanda aggregata, abbia portato in alcune zone ad eccessi di risparmio, e in altre ad eccessi di domanda? La risposta va ricercata nell’interazione di questa tendenza, comune a tutti i paesi, con le differenze istituzionali, e con diverse le risposte di politica economica[4]. Negli USA la diminuzione del reddito è stata compensata dal ricorso all’indebitamento privato, favorito da un sistema finanziario sempre meno regolato – oltre che dalla diffusa illusione che tutti i vincoli alla crescita illimitata di alcuni settori (finanziario, immobiliare) fossero stati rimossi definitivamente. Conseguentemente la domanda aggregata (consumi e investimenti) è rimasta elevata, pur essendo alimentata da debito e non da reddito. Questo non è avvenuto in alcuni paesi europei, dove regole più restrittive per i mercati finanziari, e politiche monetarie meno accomodanti hanno reso più costoso e difficile il ricorso all’indebitamento per famiglie e imprese. Anche la politica fiscale è stata generalmente più restrittiva nei paesi Europei, vincolati dal trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilità, mentre negli Stati Uniti, dove il sistema di welfare è meno sviluppato, le politiche fiscali hanno dovuto essere più attive per ammortizzare le fluttuazioni del reddito.
Per riassumere, la pressione sulla domanda aggregata, indotta da una diseguaglianza crescente nella distribuzione del reddito, si è manifestata in modi diversi: negli USA è stata nascosta da un ricorso crescente all’indebitamento privato e pubblico (che ha consentito una crescita drogata e insostenibile); in Europa, invece, i maggiori costi dell’indebitamento, e una maggiore inerzia della politica macroeconomica hanno impedito il mantenimento di una livello adeguato di domanda aggregata, con il risultato di un lungo periodo di crescita inferiore al potenziale. La crescita degli Stati Uniti è stata finanziata dagli eccessi di risparmio europeo e in misura anche maggiore proveniente da altre economie (paesi produttori di petrolio, Asia orientale), e a sua volta ne ha trainato le economie con le sue importazioni.
È interessante notare in conclusione come a sua volta la crisi abbia aggravato le diseguaglianze[5], ponendo così le basi per un ulteriore indebolimento del quadro economico complessivo.
Se questa analisi è corretta, ne deriva che per ritornare ad una crescita più bilanciata, a livello nazionale e su scala globale, bisogna invertire la tendenza degli ultimi tre decenni, e iniziare a ridurre le diseguaglianze. Ciò può realizzarsi agendo su più fronti: in primo luogo, bisognerebbe tornare a sistemi di tassazione più progressivi. In secondo luogo, a livello europeo, occorrerebbe un reale coordinamento delle politiche di tassazione, volto ad evitare la concorrenza fiscale e il dumping sociale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d’imposta sui redditi elevati e da capitale. Dal lato delle entrate, occorrerebbe tornare a sviluppare il ruolo assicurativo dello stato sociale, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali[6]. Infine, sarebbe auspicabile una rinnovata attenzione all’offerta di beni pubblici, in particolare quelli immateriali, come l’istruzione e la sanità. Nel loro insieme, queste misure ridurrebbero sia le diseguaglianze di reddito sia quelle nel consumo, stabilizzando il ciclo economico e consentendo una crescita forse meno elevata, ma certamente più sostenibile ed equa.
Una versione abbreviata di questo articolo è apparsa sul Corriere della Sera il 12 aprile 2012.
[1] Il Glass-Seagal Act, del 1933, introduceva la separazione tra banche d’investimento e banche commerciali, congiuntamente ad un sistema di assicurazione federale sui depositi in queste ultime.
[2] L’aumento della diseguaglianza degli ultimi tre decenni è ampiamente documentato dalla letteratura recente. Si veda ad esempio October 2007; OECD, Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries, October 2008; A.B. Atkinson, e T. Piketty, eds., Top Incomes over the 20th Century, London, Oxford University Press, 2007. Per un lavoro limitato agli Stati Uniti, J. Heathcote, F. Perri, e G.L. Violante, “Unequal We Stand: An Empirical Analysis of Economic Inequality in the United States, 1967–2006“, Review of Economic Dynamics, 2010 13(1): 15-51.
[3] I. Dew-Becker, e R.J. Gordon, “Where Did the Productivity Growth Go? Inflation Dynamics and the Distribution of Income,” Brookings Papers on Economic Activity, 2005, 2: 67-127.
[4] Si veda J.P. Fitoussi, e F. Saraceno, “Europe: How Deep Is a Crisis? Policy Responses and Structural Factors behind Diverging Performances,” Journal of Globalization and Development, 2010, 1: Article 17, e Fitoussi, J. P. and F. Saraceno, “Inequality, the Crisis and After,” Rivista di Politica Economica, 2011, 100(I-III), 5-27.
[5] Si veda OECD, Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising. December 2011
[6] Si veda J. Creel, e F. Saraceno, “Automatic Stabilisation, Discretionary Policy and the Stability Pact,” in Current Thinking on Fiscal Policy, edited by J. Creel e M.C. Sawyer, New York: Palgrave Macmillan, 2009, 112-44.