La Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Unione Europea che ha mosso i suoi primi passi al G8 in Irlanda del Nord, è spesso descritta con aggettivi altisonanti. La Casa Bianca dichiara che è un passo “storico”, “ambizioso” e “comprehensive”; la Commissione europea esibisce con convinzione cifre e percentuali di crescita che il ponte commerciale, sul quale non si è trovata un’intesa negli anni Novanta e poi nel 2007, porterebbe su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha spiegato che la TTIP “pianterà i semi per i posti di lavoro del futuro” e l’amministrazione Obama ammicca a questo patto “win-win”.
Altri osservatori suggeriscono però che lo spazio per gli entusiasmi è estremamente limitato. Innanzitutto è difficile prevedere oggi quale sarà la sostanza di un accordo che le parti prenderanno a discutere solo l’8 luglio a Washington e che dovrà essere completato entro la primavera del 2015. L’obiettivo è aprire i due mercati – che insieme costituiscono la metà del PIL mondiale – abbattendo le barriere doganali e favorendo la creazione di standard commerciali transatlantici: principi chiari ma che andranno riempiti di contenuti per essere effettivi. L’Europa ha fatto circolare alcune cifre per riscaldare il dibattito (creazione di 400 mila posti di lavoro e addizione di 120 miliardi di euro all’economia europea, oltre a circa un centinaio per quella americana) ma si tratta di stime puramente teoriche basate sull’ipotesi che si raggiunga il migliore degli accordi possibili. E il fatto che gli screzi siano cominciati prima ancora dell’annuncio dei negoziati non è di buon auspicio.
La posizione del presidente francese, François Hollande, che vuole proteggere l’industria cinematografica nazionale dalla concorrenza americana, è stata subito bollata dal commissario europeo José Manuel Barroso con l’aggettivo non proprio distensivo di “reazionaria”. È un battibecco che potrà certamente essere superato, ma iniziare un negoziato su un’area commerciale condivisa mettendo dei caveat è il modo migliore per invitare i partner a difendere a loro volta le proprie nicchie. Il primo problema riguarda dunque ciò che potrà essere incluso nell’accordo.
Il secondo aspetto da chiarire riguarda gli effettivi margini di crescita a disposizione. L’economista Jared Bernstein, già capo del consiglio economico del vicepresidente americano, Joe Biden, sostiene che un eventuale accordo difficilmente potrà giustificare gli entusiasmi odierni. Le tariffe doganali fra Stati Uniti ed Europa sono piuttosto basse (fra il 3 e il 4% in media), e dunque eliminarle porterebbe effetti certamente positivi ma non rivoluzionari. Senza contare che, scrive Bernstein, la TTIP “accomoderà e non sradicherà” il sistema di sussidi industriali su entrambe le sponde dell’Atlantico. Quello che in tanti (ad esempio l’Economist) descrivono come una misura che porterà ricchezza, crescita e lavoro, e una specie di riscatto dell’occidente dalla crisi economica, appare piuttosto come una riforma dal valore più simbolico che pratico.
Perché tanto entusiasmo allora? Le ragioni ci sono, nonostante i limiti oggettivi: l’Unione Europea ha disperatamente bisogno di affermarsi come corpo politico che lavora per la crescita, non soltanto in quanto burocratico dispensatore di austerity; gli Stati Uniti vedono invece la TIPP come una scommessa politica a costo zero. Barack Obama non si fa illusioni circa gli effettivi benefici che l’accordo potrà produrre, ma ne fa “una questione di legacy”, di eredità politica, come sostiene Dan Mitchell, direttore del Center for Transatlantic Relations alla Johns Hopkins University. Aggiungere il titolo di “federatore transatlantico” al curriculum è un’occasione che Obama non vuole lasciarsi scappare. Non vale granché essere ricordato come il presidente che ha gestito alla bell’e meglio la peggiore crisi economica dopo la Grande depressione; meglio essere celebrati ex post per un accordo storico che avrà permesso al blocco transatlantico di rafforzarsi in questi tempi di ruggiti asiatici e manodopera a basso costo che uccide la competitività occidentale.
In termini politici Obama non ha effettivamente nulla da perdere: sindacati e federazioni professionali americani non temono l’apertura verso l’Europa, dove le protezioni del lavoro sono troppo elevate per costituire una minaccia. La TTIP mette d’accordo progressisti e conservatori, piace ai lavoratori e alle imprese, offre nuovi spazi per una crescita agognata in modo bipartisan.
Un sondaggio dell’istituto Pew dice che il 58% degli americani è favorevole all’accordo. E contrariamente alla Trans-Pacific Partnership (TPP) – l’accordo di libero scambio che Obama ha promesso di implementare sull’asse pacifica e un’iniziativa che al momento include Singapore, Cile, Nuova Zelanda, Brunei, Australia, Peru e Vietnam – la TTIP è stata ricevuta dai Democratici al Congresso in modo generalmente positivo. È possibile che nel corso del lungo iter politico e legislativo l’accordo trovi l’opposizione di parlamentari americani legati a settori che l’America è tentata di mettere al riparo dal patto transatlantico, come agricoltura, tecnologia e servizi finanziari, ma per il momento l’avversione al TTIP a palazzo appare marginale. Circostanze tutto sommato eccezionali per il clima politico di Washington che la Casa Bianca vuole capitalizzare al massimo.