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Le ambizioni di Putin e la debolezza della Russia

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Conviene dare un’occhiata ulteriore al discorso di Vladimir Putin sullo “stato dell’Unione”. Il Presidente di tutte le Russie ha in realtà circoscritto le sue ambizioni. O meglio: ha confermato ma circoscritto le ambizioni imperiali e revansciste di Mosca nei paesi vicini; al tempo stesso, ha ridefinito le priorità economiche di una Russia che – stretta fra svalutazione del rublo e crollo del prezzo del petrolio – rischia di non farcela più. E deve quindi cambiare marcia.

Si profila così una fase che potremmo definire Putin 3, dominata dal patriottismo economico, insieme al nazionalismo. Teniamo conto delle premesse. Putin 1 aveva proposto ai russi lo scambio seguente: benessere economico versus acquiescenza politica. Sono gli anni in cui la Russia crea – dopo la crisi finanziaria del 1998 – una consistente classe media. Mosca aspira a diventare nel tempo la guida dei BRICS e migliora il suo volto. Dopo la parentesi Medvedev (e il sostanziale fallimento della partnership per la modernizzazione economica con l’Europa), Putin 2 cambia i termini dello scambio con i suoi cittadini (o sudditi?). Questa volta offre ai russi, per un appoggio politico incondizionato, l’orgoglio nazionale ritrovato. Prima la guerra in Georgia e poi la presa della Crimea: nel cortile di casa, Mosca ritrova ambizioni da impero russo, prima che sovietico. Il punto, tuttavia, è che questo secondo scambio comincia a ledere il primo: più ancora delle sanzioni occidentali, è la guerra dei prezzi del petrolio a minare la sostenibilità di quella che rimane per molti versi una “petro-economia”. E quindi eccoci all’offerta di Putin 3, riassunta nel modo seguente da uno dei più brillanti analisti di Mosca, Dmitri Trenin. Come risulta dal discorso alla Duma del 4 dicembre scorso, il disegno a medio termine di Vladimir Putin è basato su questi punti:

  • Tenersi la Crimea, preparandosi a uno stallo prolungato con l’Occidente;
  • Diversificare i rapporti internazionali, puntando sui paesi non-occidentali (dalla Cina alla Turchia, come dimostra il recente incontro fra lo Zar e il Sultano);
  • Cementare l’unità patriottica del popolo russo;
  • Conferire allo Stato un ruolo più attivo nell’economia, ricostruendo l’industria russa, favorendo piccole e medie imprese, e recuperando capitali fuggiti all’estero.

Come si vede, Putin è ormai consapevole del costo economico delle sue scelte internazionali. E tenta, per usare una espressione occidentale, di non “sprecare la crisi” russa, proponendo una strategia di ripresa in parte basata sui rapporti con il “non Occidente”, in parte affidata al rientro forzato dei capitali. Nazionalismo e patriottismo economico, appunto.

La questione, naturalmente, è se il Putin 3 possa funzionare. In politica estera, un deal sull’Ucraina resta difficile: il discorso, insieme ai fatti, lo confermano. Per ora, sono gli ucraini ad avere pagato i costi più cari. Secondo stime delle Nazioni Unite (ottobre scorso), la guerra limitata fra Kiev e Mosca – una guerra calda, non fredda – ha provocato 3.682 morti e circa 9.000 feriti. Sono migliaia di vittime che dovremmo considerare europee, visto che l’UE ha firmato con l’Ucraina un accordo di partnership (con l’aggiunta ipocrita di farlo entrare in funzione nel 2016). Un’intesa parziale fra Mosca e Kiev (e rispettata, a differenza di quella di Minsk dei primi di settembre) ridurrebbe sia i costi in vite umane dell’Ucraina che i rischi di escalation in Europa orientale. Apparentemente, Putin potrebbe decidere di rinunciare al controllo diretto sul Donbass (questa la tesi di Trenin e di parecchi altri osservatori) per giocare invece la carta della “finlandizzazione” dell’Ucraina. Ma non è una carta facile da vendere all’interno (dopo avere promesso in lungo e in largo la protezione dell’intero “mondo russo”); nè è facile, per Mosca, controllare del tutto i separatisti. Date le premesse, inoltre, la scelta di Putin non cancellerà – ed è necessariamente così, dal punto di vista occidentale – le fonti di tensione fra Mosca, l’Europa (con minore o maggiore “resistenza” a seconda dei paesi) e gli Stati Uniti. Il confronto Russia/Occidente durerà ancora del tempo; sarà lungo e difficile. Proprio per questo, tuttavia, gestirlo diventa indispensabile, sapendo – fra l’altro – che il pivot asiatico di Putin lascia il tempo che trova mentre la relazione Russia/Europa resterà, almeno a medio termine, decisiva per entrambe le parti (sicurezza, energia).

È ancora più arduo pensare  che funzioni il patriottismo economico di Vladimir Putin – ad esempio, la fuga di capitali ha già assunto proporzioni enormi. La scommessa del capo del Cremlino è che le conseguenze della guerra in Ucraina possano funzionare da leva per liberare la Russia dalla “maledizione del gas e petrolio”. L’abbandono del progetto South Stream è anche un passo in questa direzione. Il paradosso, per noi europei, è che dovremo tenere in vita le sanzioni (come impone la crisi ucraina) e al tempo stesso sperare che i progetti economici di Putin non falliscano del tutto. Perché  la verità – amara ma realistica – è che dobbiamo temere la debolezza economica di una Russia nazionalista almeno quanto la sua forza.