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L’autoritarismo di Putin, senza veli

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Molte analisi, come quella di Freedom House, evidenziano negli ultimi anni un arretramento delle democrazie a vantaggio dei sistemi autocratici (o semi-autoritari). Insieme alla Cina, la Russia è tra i paesi più sottoposti a critiche da parte dei paesi a tradizione democratico-liberale.

Sull’onda della crisi economica internazionale (con le sue origini decisamente americane e finanziarie), la proposta di Mosca di un sistema di “modernizzazione autoritaria” ha attirato una qualche attenzione anche come possibile critica del modello “liberista”. Il vertice sino-russo dello scorso marzo è stato così indicato perfino come il momento fondante di un “asse delle autocrazie”.

In effetti,  ben pochi sono nella storia russa i momenti non gestiti autocraticamente, e i russi non sono apparsi molto interessati e sensibili alla sostanza democratica del vivere sociale. Assai maggiore attenzione viene data alle ragioni dell’economia, sui cui successi il presidente Putin ha fondato la propria fortuna politica.

I dati dell’ultimo biennio, tuttavia, sembrano indicare che la strada intrapresa da Mosca, quella di un progresso dall’alto verso il basso, di una modernizzazione graduale e teleguidata dalle rive della Moscova, non sia destinata a un nuovo “radioso avvenire”.

La proposta russa, che è difficile definire come del tutto originale rispetto a quella di epoca sovietica, è legata strettamente al decadimento che sta interessando il paese. La personalizzazione del potere, la necessità sempre più sentita dal Cremlino di rinverdire la rivendicazione del ruolo di grande potenza, e la fusione tra potere e proprietà, riportano a galla antichi tratti che sembravano essere stati mutuati con un certo successo dalla  Russia post-comunista.

Qui, il potere ha sostituito l’ideologia con il pragmatismo, ha immesso nelle vene di una società in via di diversificazione e segmentazione una discreta parte delle rendite provenienti dagli alti corsi dei prezzi delle materie prime, e ha riconosciuto una sostanziale libertà personale accanto all’esercizio di una decisa repressione selettiva contro i gruppi di opposizione meglio organizzati.

Lo scambio è stato chiaro: l’intramontabile mito della stabilità politico sociale e della crescita economica, da un lato, in cambio del rigido controllo sulla vita politica. I suoi limiti sono ora venuti a galla con le proteste di piazza a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Si è trattato di una protesta che ha imbarazzato il Cremlino, portando per la prima volta sotto i riflettori della vita politica russa – mai sembrata così realmente pluralista – una nuova generazione di giovani che non ha mai conosciuto direttamente l’Unione Sovietica.

Come ha segnalato recentemente lo scrittore Viktor Eurofeev, da quel momento è evidente lo scontro in atto tra due Russie: la prima vuole mantenere il controllo dello stato sulle persone, la seconda vuole il contrario: uno stato subordinato alle necessità e alle richieste della gente. I casi delle Pussy Riot, di Alexej Navalny e dell’arresto degli attivisti di Greenpeace, sono tutti episodi che hanno evidenziato come nella vita politica russa non c’è più solo il Cremlino.

La nuova generazione appare però confusa: non ama affatto gli Stati Uniti e guarda all’Europa con lo stesso interesse di un adolescente che guarda ad una vecchia signora sulla panchina di in una casa di riposo, ma è pronta a fare carte false per un permesso di residenza in Bulgaria. Così come la Russia ha probabilmente smesso di essere una grande potenza ed è alla ricerca affannosa di un ruolo, una parte crescente dei suoi cittadini, secondo Eurofeev, ha smarrito quei valori tradizionali che danno vita ad un popolo, ed è ancora alla ricerca di una forma che ne faccia una nazione moderna.

Anche nella Chiesa ortodossa, tradizionalmente alleata del potere, sembrano essere in atto dei cambiamenti, e lo stesso Patriarca Kirill ha recentemente preso posizioni più attente per limitare il ruolo della chiesa ortodossa in materia politica. In occasione della presentazione di un emendamento che vorrebbe definire nella carta costituzionale l’identità nazionale russa come basata sull’ortodossia cristiana, Kirill è rimasto piuttosto freddo.

Nel frattempo, l’assertività dell’autoritarismo russo in politica estera aumenta gli ambiti di incomprensione con la UE. Una percezione che è in stridente controtendenza con l’accresciuta importanza economica della Russia in Europa nell’ultimo decennio, soprattutto attraverso le condotte energetiche.

Si consideri in particolare la vicenda, tuttora in corso, del percorso di avvicinamento dell’Ucraina alla UE: l’atteggiamento russo si è concretizzato in uno “stop” praticamente imposto a Kiev, che ha però causato una forte reazione interna dell’opinione pubblica ucraina.

Con altrettanta assertività la Russia si sta comportando, sempre nel contesto della progressiva integrazione con la UE nei suoi vari stadi, verso la Moldavia e la Bielorussia, verso la Georgia, e addirittura verso la Serbia. Nel caso ucraino, tuttavia, è necessaria un’analisi più cauta: fermo restando l’intervento a dir poco muscolare di Mosca, è difficile dire fino a che punto si sia trattato di un caso che dovrebbe anche indurre Bruxelles a riconoscere la limitata attrattività del modello di partnership offerto dall’Unione Europea.

A creare tensioni tra Mosca e Bruxelles contribuiscono poi i ripetuti episodi in cui è stato duramente criticato (anche dalle capitali dei paesi membri) l’operato delle forze di sicurezza russe nei confronti delle organizzazioni non governative occidentali attive in Russia (da Human Rights Watch a Transparency International). Persino il compassato Frankfurt Allgemaine Zeitung ebbe a dichiarare che “Dal ritorno di Putin al posto di presidente, si può osservare che un regime autoritario – che ancora tollera un ristretto livello di libertà in alcune nicchie della società, quando non sono critiche del potere statale – si stia lentamente trasformando in una dittatura in ‘buona fede’”.