international analysis and commentary

L’approccio internazionale di Obama bis

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Le nomine della nuova squadra di politica estera e di sicurezza (John Kerry, Chuck Hagel, John Brennan) rendono più evidenti alcuni tratti dell’approccio del presidente Obama che già erano emersi nel primo mandato. Anzitutto, abbiamo la ricerca di una posizione che coniuga in una nuova sintesi il realismo “centrista” della tradizione americana: l’interventismo diplomatico ma anche il contro-terrorismo, la disponibilità ad agire da soli ma anche la visione degli USA come nucleo di coalizioni internazionali quando possibile. In secondo luogo, è emersa e sembra consolidarsi una cautela assai maggiore che in passato nell’intraprendere azioni militari su larga scala, lasciando un maggiore margine di tempo e di manovra allo strumento diplomatico (si veda il caso Iran). Le due tendenze non sono in contraddizione, almeno fintanto che i vitali interessi americani non siano direttamente minacciati o colpiti – come furono l’11 settembre 2001.

Nel contesto di tale mix, Obama si è dimostrato per nulla restio a impiegare la forza in determinate condizioni: dal surge in Afghanistan prima di precisare le condizioni del (quasi) ritiro, alle frequenti operazioni con i droni senza pilota, fino ai bombardamenti mirati sulla Libia nel 2011 per appoggiare l’intervento franco-inglese (in ambito NATO). La più ovvia ma anche convincente conferma che il presidente ha forgiato una sintesi politica viene dai suoi critici di destra, poiché questi lo accusano non di scarsa fermezza ma di scarsa coerenza con la sua retorica. Pur essendo un Democratico, e in politica interna di marca piuttosto liberal su varie tematiche delicate, Obama ha adottato alcuni degli strumenti controversi del suo predecessore – compreso l’utilizzo della base di Guantanamo come prigione per i sospetti terroristi.

Proprio in quest’ottica, le critiche si collocano anche a sinistra dello spettro ideologico americano, nuovamente per incoerenza rispetto agli accenti più liberal delle scelte annunciate in politica estera. In altre parole, la linea internazionale di Obama è realmente bipartisan, proprio come promesso fin dal 2008.

Per certi versi, un consenso quasi riluttante – ma pur sempre un consenso – deriva dalla presa d’atto dei vincoli di bilancio, per cui tutti sanno che l’aumento dei fondi della difesa rallenterà, e la vera discussione è con quali criteri. È da notare che non si tratta neppure di “tagli” alla difesa, almeno secondo le posizioni ufficiali ribadite a più riprese dall’amministrazione, bensì di un contenimento della crescita che dal 2001 è stata insolitamente rapida.

Dunque, un atteggiamento selettivo e prudente verso gli impegni di politica estera, e soprattutto di quelli con implicazioni militari, è nella natura delle cose in questa fase. Al contempo, chiunque abbia esperienza di questioni internazionali (o anche soltanto un po’ di memoria storica) sa altrettanto bene che Washington viene risucchiata anche suo malgrado in molti conflitti “locali” perché essi hanno un notevole potenziale di contagio. L’intreccio tra crisi del Mali e situazione dell’Algeria sta a ricordarci, tra l’altro, questa realtà ineludibile (per l’America e forse ancor più per l’Europa).

Il pragmatismo sulle modalità e gli strumenti dell’impegno americano continuerà a caratterizzare l’approccio internazionale di Washington. Più che una dottrina abbiamo di fronte un compromesso con la realtà di un sistema globale complicato e spesso più interdipendente di quanto sembri: l’America di Obama rimane una potenza senza pari, ma si sta adattando a esercitare la sua influenza in modo da limitare rigorosamente i costi.