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L’anno della svolta difficile per la Serbia

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Il 2012 si annuncia come un anno di svolta per la Serbia. Il paese ha ricevuto il 3 marzo lo status ufficiale di candidato all’ingresso nell’Unione Europea. Il 6 maggio la cittadinanza sarà chiamata a scegliere, con le previste elezioni presidenziali, l’uomo che guiderà il paese in questo processo. Sullo sfondo, ma determinante per un decisivo avvicinamento di Belgrado all’occidente, resta la questione dell’indipendenza del Kosovo.

L’ottenimento della candidatura da parte della Serbia non sembrava affatto scontato. Per tutto il 2011 la Germania e la Francia hanno premuto perché Belgrado compiesse dei passi significativi verso la distensione dei rapporti con il Kosovo, considerato dalla Serbia come parte integrante del proprio territorio. Il piccolo paese ospita, dal giorno prima della dichiarazione d’indipendenza del 17 febbraio 2008, un corpo composto da funzionari giudiziari e di polizia dell’Unione Europea (EULEX) che si occupa di favorire la costruzione delle strutture statali e di regolare i rapporti tra l’etnia di origine albanese (maggioritaria in gran parte del territorio) e l’etnia di origine serba, preponderante soprattutto nel nord. A ulteriore tutela, in Kosovo sono presenti contingenti di truppe tedesche, italiane e inglesi.

La svolta è stata possibile per una combinazione di fattori. Dal canto suo, la Serbia ha abbandonato la politica di boicottaggio della partecipazione del Kosovo agli incontri internazionali e interregionali. Secondo l’accordo tra Bruxelles e Belgrado, i rappresentanti kosovari potranno partecipare d’ora in poi agli incontri, ma il nome Kosovo non dovrà essere associato alla parola “Repubblica”: sarà invece accompagnato da un asterisco che rimandi alla Risoluzione 1244 dell’ONU, che qualifica il territorio come provincia autonoma serba, e alla sentenza della Corte dell’Aja che definisce la proclamazione dell’indipendenza coerente con il diritto internazionale.

Infatti, l’ONU non ha ancora riconosciuto l’indipendenza del Kosovo: al parere positivo di Stati Uniti, Francia e Regno Unito fanno da contraltare, tra i paesi con diritto di veto, Russia e Cina. Nemmeno l’Ue esprime una posizione univoca in merito: ben cinque membri si oppongono, e cioè Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro. Si tratta di paesi che non vedono di buon occhio, per la presenza al loro interno di forti spinte regionaliste o consistenti minoranze, un’accettazione tanto rapida della secessione di un’ex “provincia autonoma”.

Tuttavia, a livello europeo, la concordanza sostanziale di Germania, Francia, Italia e Regno Unito ha reso possibile la costruzione di una strategia coerente per un’area geopolitica tanto turbolenta quanto vicina alle frontiere dell’Unione. L’obiettivo chiave è certamente quello di sottrarre la regione all’influenza russa, visti i profondi legami politici, culturali ed economici tra Mosca e Belgrado. C’è forte interesse per una maggiore apertura della Serbia agli investimenti europei (in prima fila quelli tedeschi e italiani). Bruxelles vuole anche contenere la politica di vicinato turca, sempre più interessata a un’area in cui la presenza musulmana è significativa.

L’altro fattore, probabilmente decisivo, che ha sbloccato lo stallo è stato proprio la decisione di usare l’offerta di avviare i negoziati di adesione come leva politica per incoraggiare un nuovo orientamento della politica serba – offerta giunta, non a caso, due mesi prima delle elezioni presidenziali. Il presidente uscente Boris Tadić, presentatosi nel 2008 sotto lo slogan Conquistiamo l’Europa insieme, potrà dunque vantare in campagna elettorale questo risultato per disinnescare una possibile deriva nazionalista del voto. È per questo che Tadić si è dimesso un anno prima della scadenza naturale del suo mandato. In passato non sono mancate in Serbia proteste anche consistenti contro la consegna alla Corte dell’Aja di criminali di guerra come Radovan Karadžić e Ratko Mladić, ed in generale il governo è stato accusato di eccessiva arrendevolezza nella gestione della questione kosovara. La candidatura ufficiale consente ora a Belgrado di chiudere un lungo capitolo di parziale isolamento internazionale, a fronte di un processo di integrazione europea già completato dalla Slovenia, in dirittura d’arrivo per la Croazia, e avviato da Macedonia e Montenegro.

Tadić, leader del Partito Democratico (DS) di centrosinistra, è l’uomo su cui la diplomazia europea punta per garantire la stabilità dell’area. La sua biografia rispecchia le vicende vissute da tanti cittadini della ex Yugoslavia: nato a Sarajevo, ebbe sette parenti uccisi dagli Ustascia croati durante la Seconda guerra mondiale; diventa presidente del DS dopo l’uccisione nel 2003 dell’allora leader Zoran Đinđić da parte di un cecchino legato al clan mafioso paramilitare Zemun – due anni prima Đinđić aveva consentito l’estradizione di Slobodan Milošević alla Corte dell’Aja. Nel 2004 vince le elezioni presidenziali, ottenendo un secondo mandato nel 2008.

Per la terza volta consecutiva il suo principale avversario sarà Tomislav Nikolić, oggi alla guida di una nuova forza politica, il Partito progressista serbo, dopo la scissione del 2008 dall’ultranazionalista Partito radicale serbo. Le divergenze fondamentali tra Nikolić e il fondatore del partito radicale Vojislav Šešelj (attualmente sotto processo all’Aja per crimini di guerra) riguardano la posizione internazionale della Serbia: secondo l’ala più intransigente, Belgrado avrebbe dovuto consolidare i suoi legami con la Russia (tradizionale alleato) e la Cina, rifiutare ogni tipo di coinvolgimento nell’Unione Europea, e puntare su un ruolo egemone tra i componenti della ex Yugoslavia.

Meno di un terzo dei deputati, ma la maggior parte dell’opinione pubblica, hanno seguito la linea “europeista” di Nikolić. Tuttavia, questo cambiamento non tranquillizza le cancellerie occidentali: l’eventuale vittoria della coalizione che sostiene Nikolić, e che avrà il consenso di una parte della vecchia base elettorale ultranazionalista, compresa la minoranza serba che vive nel nord del Kosovo, rischierebbe di compromettere la fragile distensione in corso. Non è un caso infatti, che al di là del conferimento della candidatura alla Serbia, i ministri degli Esteri dell’Unione Europea non abbiano voluto indicare alcuna data per l’inizio dei negoziati veri e propri.

La riconferma di Boris Tadić è comunque tutt’altro che scontata. La situazione economica del paese è disastrosa: il tasso di disoccupazione ha raggiunto in novembre la cifra del 23,7%. Lo stato, in crisi di bilancio per l’aumento delle importazioni e per la frenata del Pil, non può utilizzare la tradizionale leva delle assunzioni pubbliche come ammortizzatore sociale. Il debito pubblico è infatti aumentato di circa il 50% negli ultimi quattro anni.

Numerose manifestazioni di piazza chiedono da mesi un voto anticipato – l’opinione pubblica è infuriata anche per la scoperta di diversi casi di corruzione – ma il presidente ha preferito richiamare al ministero dell’economia il tecnico indipendente (già primo ministro da quattro anni) Mirko Cvetković. Sembra però difficile, senza il rafforzamento del flusso degli investimenti esteri, l’avvio di un processo riformatore in un paese in cui ancora un quarto della forza lavoro è impiegata in agricoltura e il peso di aziende pubbliche inefficienti condiziona le scelte economiche.

La coalizione di centrosinistra di Tadić dovrebbe raccogliere al ballottaggio il sostegno dei partiti che rappresentano le minoranze presenti nel paese, e delle forze fautrici di un maggiore decentramento amministrativo. Dall’altra parte, si troverà di fronte la costellazione nazionalista e centralista che sostiene Nikolić. Data la frammentazione del sistema politico, non è detto che il candidato vincente potrà contare su una maggioranza parlamentare definita. Non sarà quindi facile il compito del presidente che dovrà condurre la Serbia lungo il percorso dell’integrazione europea; un percorso che necessariamente passerà anche per il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.