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L’albero della vita di Expo 2015: natura e tecnologia

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L’Expo di Milano ha adottato come uno dei suoi simboli la grande scultura chiamata “Albero della vita”. A un’icona molto simile – che, con qualche variante, si ritrova in molti miti tradizionali – si ispirava il film Avatar (grande successo cinematografico del 2009), con il cosiddetto “albero delle anime” sul pianeta immaginario di Pandora.

Un aspetto interessante della versione cinematografica – che si ritrova in effetti nei temi di Expo 2015 – è il particolare rapporto tra la natura e la tecnologia, che proprio l’albero in qualche modo sintetizza. Da un lato, i pacifici abitanti del pianeta Pandora scelgono di vivere in perfetta armonia con la natura e sembrano assai diffidenti verso le tecnologie, soprattutto quando vengono sfruttati e poi quasi distrutti dagli esseri umani (invasori di stampo coloniale) proprio a causa di una nettissima superiorità tecnologica. Dall’altro lato, nella vicenda raccontata dal regista James Cameron, l’incontro tra le due culture è reso possibile e in certa misura proficuo proprio da una particolare tecnologia: quella che consente al protagonista di acquisire una sorta di controllo remoto di un corpo uguale a quello dei nativi del pianeta. Potremmo dire insomma che l’interazione – e poi perfino la possibile integrazione pacifica – tra i due popoli avviene grazie a una delle invenzioni terrestri, pur con tutti i danni che nella vicenda vengono provocati dagli umani e dalla loro bramosia di dominare la natura. In altre parole, gli avanzamenti tecnologici possono sfuggire di mano e avere effetti perversi, ma generano anche soluzioni utili e costruttive.

Questa situazione, cioè un rapporto molto instabile tra natura e tecnologia, caratterizza in realtà la storia umana fin dai suoi albori. Ad esempio, quasi certamente non sono stati la rivoluzione industriale né il capitalismo a trasformare parte delle foreste nella fascia centrale del continente nordamericano (che conosciamo infatti come “grandi pianure”) in praterie: secondo molti studi, sono state le popolazioni indigene con il metodo degli incendi semi-controllati (una tecnologia cruciale, per l’epoca) soprattutto nelle attività di caccia alle grandi mandrie di bovini. Sono noti molti altri casi di distruzione – o quantomeno trasformazione – di ambienti naturali da parte di culture decisamente preindustriali, come racconta ad esempio Jared Diamond in un suo volume del 2005 (Collapse. How Societies Choose to Fail or Succeed). In generale, le società preindustriali hanno avuto un atteggiamento piuttosto aggressivo e predatorio nei confronti delle terre che hanno abitato, sia nella lunga fase del nomadismo (decine di migliaia di anni) sia in quella praticamente stanziale (molto più recente). La variabile principale per determinare la sostenibilità ambientale dei modi di vita è stata quasi sempre quella demografica: popolazioni ridotte, rispetto alle risorse naturali disponibili, restano solitamente nei limiti della sostenibilità, per il semplice fatto che non hanno bisogno di intaccare a fondo le riserve. Nella maggioranza dei casi, non è stata insomma una particolare sensibilità ambientalista a salvare il pianeta, ma semmai una carenza tecnologica (in termini relativi) e, di conseguenza, una scarsa “impronta demografica”.

Il problema del presente, e del futuro, è che il rapporto tra popolazione, spazio, orografia e clima è cambiato radicalmente su scala globale, finendo per avere alcuni effetti perfino sul clima stesso. L’impatto dell’umanità sul pianeta è obiettivamente diventato macroscopico. Non possiamo dunque consolarci guardando al passato né evitare le nostre responsabilità verso le generazioni future.

Ricordare però il lungo percorso storico (in parte addirittura preistorico) da cui proveniamo è utile a meglio comprendere il carattere neutro della tecnologia, e anche la circostanza ancora più fondamentale che la vita non è in perfetto equilibrio bensì in costante disequilibrio dinamico (basti pensare alle inevitabili fluttuazioni nel rapporto numerico tra prede e predatori lungo la catena alimentare in qualunque ecosistema). Le moderne tecnologie – messe al servizio di oltre 7 miliardi di esseri umani – sono diventate la variabile principale per molti cambiamenti in corso, ma gli squilibri tra esseri viventi non sono affatto una novità, e abbiamo l’enorme vantaggio di poter impiegare tecnologie molto sofisticate, compresi modelli analitici e previsionali. Dovrebbe essere perfino banale affermarlo, eppure è proprio l’innovazione che ci salverà dai danni delle tecnologie più distruttive.

Una certa demonizzazione della tecnologia ne ha da sempre accompagnato lo sviluppo, soprattutto nella fase in cui accelera l’introduzione delle innovazioni “disruptive” rispetto ai metodi produttivi preesistenti. In parte, questa reazione è un sano antidoto, una sorta di prudenza atavica e di paura del nuovo (cioè dell’ignoto); in parte però è un equivoco, fondato sull’idea di una contrapposizione netta tra fattore umano (inteso come tradizione) e fattore tecnologico (inteso come novità dagli effetti imprevedibili). In realtà, la tecnologia è un moltiplicatore di tutti i caratteri umani (buoni, neutri, cattivi), sia individuali che collettivi, e dunque va usata con raziocinio ma anche senza panico.

A suggerire proprio questa visione sono alcune delle più recenti interpretazioni dei processi innovativi, come ad esempio la cosiddetta “innovazione sociale” studiata da Roberto Panzarani in un recente libro (Humanity: la conquista sociale dell’impresa). È una concezione aperta, collaborativa e solidale del cambiamento tecnologico, che viene posto al servizio di bisogni e desideri orientati alla qualità della vita. Questo approccio guarda all’enorme potenziale dei network (digitali ma non soltanto, dai più piccoli ai più estesi) come meccanismi di apprendimento ed evoluzione; e in tal senso le reti digitali non sono diverse da quelle biologiche. Si tratta di un invito, non utopistico ma concreto, a riconciliarsi con la tecnologia, a trarne il meglio possibile e a condividerla.

Il grande obiettivo su cui è incentrato Expo 2015 – nutrire il pianeta – dipende direttamente alla capacità di combinare in modo intelligente e lungimirante fattori biologici e tecnologici. Dunque, consapevolezza dei limiti naturali e immaginazione creativa. Il maestoso “albero della vita” che campeggia all’Esposizione di Milano è una creazione architettonica in legno e acciaio: un manufatto che è al contempo a misura d’umanità e di natura, potremmo dire. È la via giusta per il futuro.

 

See also: Aspenia 69, Fame Zero