international analysis and commentary

La vera alternativa all’autoritarismo in Cina: rule of law e autonomie regionali

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Secondo Charles Grant, direttore del CER di Londra, il sistema politico cinese sta diventando più autoritario, mentre i leader di Pechino sono sempre meno propensi a piegarsi alle pressioni occidentali.

Nell’articolo pubblicato su Aspenia n.46, Grant sottovaluta però gli effetti dell’integrazione della Cina nel mercato globale, decisa dal Partito Comunista nel momento in cui ha fatto della crescita economica la fonte primaria della propria legittimità interna. Questa integrazione mostra in maniera evidente di produrre dei feedback importanti sull’assetto dello Stato cinese. Non soltanto obbligandolo a un processo di decentramento e razionalizzazione, ma anche ad una progressiva costituzionalizzazione della vita politica. In sostanza, si sta affermando una forma di rule of law al fianco (se non ancora al posto) dell’attuale prassi che possiamo definire di rule by law.

L’apertura della Cina alla comunità internazionale, e in particolare l’adesione alla WTO, obbliga il suo apparato di potere ad apprestare un sistema di garanzie giuridiche in contrasto con la tradizione del paese, e dunque ad aderire di fatto al modello giuridico occidentale. E’ vero che tale processo incontra delle resistenze; ma queste non sono tanto ascrivibili a una concezione di “valori asiatici” (questione probabilmente sopravvalutata), quanto ad un divario fra norma giuridica e prassi. Nonostante le molte leggi riformatrici, l’applicazione resta problematica: in particolare, le amministrazioni pubbliche dei vari livelli territoriali tendono ancora a funzionare secondo pratiche autoritarie e arbitrarie. Al regime personalistico, centralizzato e pianificato della fase maoista si è sostituito un modello decentrato, in cui importanti quote di potere amministrativo sono state trasferite alle autorità locali, e queste dispongono oggi di notevole spazio di manovra nell’interpretare le indicazioni provenienti da Pechino.

Se la redistribuzione delle funzioni governative porta dunque con sé notevoli difficoltà, è però anche vero che riflette un reale cambiamento degli incentivi economici. Ciò sta accadendo a partire dall’attribuzione di diritti di “semi-proporietà” a favore delle èlite locali. La questione è decisiva perché i burocrati sono stati spinti a rimanere nell’alveo del partito, piuttosto che a privatizzare i beni dello Stato per il proprio vantaggio personale – come è invece accaduto in Russia negli anni di Eltsin. Sebbene molti vedano nei diritti di semi-proprietà una distorsione del mercato cinese, è possibile che sia stato proprio questo passaggio a fare da collante cruciale per tenere unito il Partito e preservare lo Stato.. Al movimento dall’alto verso il basso, spinto dai vertici stessi del Partito, si è aggiunta una rimodulazione dei rapporti sociali fondata sul mercato, per cui il denaro e la competenza tecnico-scientifica creano di per sé stratificazioni prima inesistenti. Così, mentre si riduce l’influenza dei quadri di Partito aumenta la centralità di professionisti, manager e accademici.

Ciò produce una sorta di proliferazione esponenziale degli interessi individuali e collettivi, provocando dialettiche e conflittualità di cui la leadership è sempre più costretta a tenere conto. Il Partito tende a fungere da canale per l’espressione delle istanze che provengono dai principali gruppi sociali, soprattutto per effetto del decentramento.

Nel frattempo si assiste anche ad una crescente influenza dell’Assemblea Popolare sulle massime decisioni politico-amministrative. A dispetto della Costituzione cinese, il potere parlamentare ha tradizionalmente svolto un ruolo soltanto formale, ma negli ultimi anni il Partito sembra aver promosso una sua funzione come organo di supervisione generale.

In sostanza, vi sono due logiche in azione: quella della dispersione del potere (in termini sociali e geografici) ad opera del mercato, e quella del decentramento politicamente controllato di alcune competenze amministrative. Talvolta si generano tensioni tra di esse, ma in altri casi le due dinamiche possono rafforzarsi a vicenda – come nel caso, ben noto, delle “regioni economiche speciali”.

Il tema del decentramento è importante perché – come insegna l’esperienza del regionalismo e del federalismo nel diritto comparato – le riforme della struttura territoriale di un paese non possono essere disgiunte da altre riforme. Il naturale intreccio fra competenze statali e competenze regionali implica un ripensamento delle politiche economiche nel loro complesso. Ed è esattamente questo il caso per le riforme, ancora incomplete, sulle imprese di proprietà statale in Cina: questi cambiamenti devono fare parte di un pacchetto di interventi sul sistema delle pensioni, della sanità e degli ammortizzatori sociali. In altre parole, l’organizzazione territoriale dello Stato finisce per toccare l’esercizio dei diritti fondamentali.

Charles Grant sostiene nel suo articolo che il governo cinese non sembra aver alcun tipo di strategia politica per affrontare le cause sociali, economiche e culturali dei disordini in Tibet e nello Xinjiang. Io propongo che la via d’uscita potrà trovarsi in un rafforzamento dell’autonomia territoriale per le due regioni. E affinché il diritto all’autonomia territoriale delle minoranze sia realmente garantito, non solo sulla carta, è necessario il rafforzamento della democrazia e del pluralismo.

L’ipotesi di una Cina federale è stata avanzata a più riprese da vari dissidenti cinesi (1994), dal presidente di Taiwan Lee teng-hui (1999) e dal Dalai Lama (1988). Essa prevede che le minoranze più rilevanti godano di uno status di autonomia elevato. Il destino dell’Unione Sovietica, disintegratasi proprio a cavallo di quegli anni, sarà apparso desiderabile alle più attive minoranze della Cina, prime fra tutte i Tibetani e gli Uiguri; ma il paese – per sua fortuna – ha seguito un altro percorso.

A questo punto, è altamente improbabile che la maggioranza Han, che detiene saldamente il potere, accetti un’evoluzione in senso pienamente federale. Ado oggi, il governo centrale persiste nella sua politica di incoraggiare lo sviluppo economico e al contempo reprimere il dissenso nelle aree popolate dalle minoranze. È però possibile, parallelamente al graduale sviluppo dello Stato di diritto e di una forma di democrazia in Cina, una maggiore attenzione verso la questione delle autonomie regionali. Contribuire a quest’evoluzione è nell’interesse delle stesse minoranze, evitando contrapposizioni frontali che porterebbero a una repressione violenta delle istanze separatiste.

Further reading
Dibattiti cinesi di Charles Grant, Aspenia 46