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La strada in salita di Kerry in Medio Oriente

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I negoziati indiretti che dovrebbero portare ad uno status permanente e ad una soluzione del conflitto arabo-israeliano sono ricominciati, senza grande entusiasmo da nessuna delle parti. Negli USA, la questione sembra ricevere al momento molta meno attenzione di altre. Il segretario di Stato americano John Kerry si è recato in Medio Oriente a fine giugno per affrontare una serie di dossier: il riarmo dei ribelli siriani che si oppongono al regime di Bashar al-Assad; l’elezione del presidente Hassan Rohani in Iran con la possibilità che la Repubblica islamica si apra ad una “distensione”; la situazione in Egitto che, ad un anno dall’elezione del presidente Mohamed Morsi, ha rischiato di sprofondare in una guerra civile tra “islamisti” e “laici”; le rivolte dei giovani di piazza Taksim a Istanbul; l’Iraq, dove si assiste ad una nuova ondata di sanguinosi attentati.

In questo contesto di grande instabilità e incertezza, sorprende il tentativo dell’amministrazione Obama di rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, nell’assenza di qualsiasi progresso diretto tra le parti in causa. I negoziati sono di fatto fermi dal 2002, ma dal novembre 2012 – ovvero dal disperato tentativo di Mahmoud Abbas di scuotere lo status quo ottenendo per l’ANP un riconoscimento formale come stato osservatore dell’Assemblea delle Nazioni Unite – anche i pochi elementi di continuità rimanenti sono venuti meno: si sono così interrotte per mesi le riunioni dei comitati tecnici di coordinamento tra le due parti e il trasferimento automatico dei fondi delle tasse che Israele riscuote per l’ANP in Cisgiordania, parzialmente ripristinate solo nel marzo del 2013. L’Autorità palestinese è oggi in gravi difficoltà economiche e non gode più della legittimità che le derivava dall’essere stata democraticamente eletta, visto che le ultime elezioni presidenziali si sono tenute nel 2005 e le ultime legislative nel 2006. L’Autorità fatica a trovare una nuova pista da percorrere per riportare al centro dell’attenzione internazionale la questione palestinese e incontra difficoltà nel definire un nuovo leader che succeda al Primo ministro uscente, Salam Fayyad.

Il nuovo premier ad interim, Rami Hamdallah, vicino a Fatah, ha già rassegnato le dimissioni: non tanto, come si annuncia sui giornali palestinesi, per dissapori incontrati con i suoi due viceministri, ma per l’oggetto stesso della missione – governare la Palestina – che si rivela impossibile. Come scrive il giornalista palestinese Daoud Kuttab su Mannews, la Palestina non ha un governo non perché Hamdallah (come Fayyad prima di lui) non sia all’altezza, ma perché è quasi impossibile far rinascere un territorio nel 60% del quale (nell’area C) i palestinesi non possono costruire nulla, con crescenti numeri di rifugiati in seguito a demolizioni di case (871 solo nel 2012) e mentre il governo fatica a pagare i salari in assenza di entrate fisse. Guidare l’ANP diventa un compito sempre più ingrato che nessuno sembra aver voglia di assumere, a maggior ragione in assenza di prospettive certe sulla possibilità di istituire uno Stato realmente sovrano.  

Quali sono, quindi, i margini su cui si basa la diplomazia del segretario di Stato americano, John Kerry? Si potrebbe definire il “piano Kerry” una versione annacquata del piano di pace arabo, recentemente riproposto dal Qatar: un ritorno nominale ai confini del ’67 con scambi di territori tra le parti, una proposta potenzialmente sottoscritta dalla Lega Araba a nome di tutti i propri Stati membri. A quest’ultima, Kerry potrebbe aver aggiunto alcuni elementi maggiormente vantaggiosi per Israele, come la richiesta di uno Stato palestinese demilitarizzato e un riconoscimento formale dell’identità ebraica dello Stato di Israele. A favore dell’ANP, la diplomazia americana potrebbe perorare il rilascio di un sostanziale numero di prigionieri palestinesi tuttora detenuti da Israele, il riconoscimento di fatto dei confini del ’67 come base per i negoziati, lo smantellamento di numerose colonie e avamposti ebraici nell’entroterra della West Bank, e la possibilità per l’ANP di siglare accordi internazionali con l’esclusione della difesa e di poche altre materie.

È probabilmente troppo poco perché i palestinesi si convincano che la forma di autonomia controllata che viene loro proposta corrisponda effettivamente allo Stato nazionale su tutta o parte della Palestina mandataria che generazioni di feddayyin e rifugiati hanno atteso invano. Senza considerare poi la questione dei rifugiati: secondo una recente stima del Central Bureau of Statistics of Palestine, questi ammonterebbero al 42,1% dell’attuale popolazione palestinese, una proporzione che difficilmente può per l’ANP rendere ininfluente il problema politico del ritorno dei rifugiati in vista di un accordo finale. Infine, non è chiara cosa la mediazione dell’amministrazione Obama potrebbe prevedere per la Striscia di Gaza, in negoziati che al momento sembrano completamente escludere la possibilità di un coinvolgimento di Hamas e perfino consultazioni preliminari tra le due fazioni rivali palestinesi.

Sulla posizione ufficiale del governo Netanyahu, al contempo, sono serpeggiate voci contrastanti. Un esponente del governo ha dichiarato ad Ha’aretz lo scorso 27 giugno che, se le richieste israeliane in termini di sicurezza venissero soddisfatte, Netanyahu non esiterebbe a ordinare il ritiro – e lo smantellamento delle colonie – sul 90% della West Bank. Voci come queste non sono insolite nella storia degli accordi di pace: si ricorda ad esempio la presunta offerta segreta di Ehud Barak, che nel 2000 sarebbe stato pronto a concedere tutta la Cisgiordania e anche a dividere la città di Gerusalemme. Le ipotesi di importanti concessioni sembrano oggi particolarmente infondate se messe a confronto con le azioni del governo Netanyahu. Una netta maggioranza dell’attuale governo e perfino della Knesset, infatti, ha espresso opinioni molto negative o molto scettiche sulla possibilità che uno stato nazionale palestinese autonomo veda la luce.

Ad iniziare da Naftali Bennet, popolare leader di HaBayit HaYehudi (the Jewish Home), il terzo partito in ordine di preferenze, che ha negato che le colonie rappresentino un ostacolo a eventuali negoziati, perché – nelle sue parole – “non vi è occupazione, dal momento che gli ebrei sono nella loro terra”. Un ragionamento simile a quello contenuto nel Rapporto Levy – che aveva concluso il secondo governo Netanyahu, sostenendo che l’occupazione della Cisgiordania non fosse illegale dal punto di vista del diritto internazionale – e di molti colleghi di Bennet nel Likud e attuali membri del governo, (tra cui il vicepremier come Danny Danon), che ha recentemente dato vita a un comitato informale alla Knesset (un vero e proprio gruppo di pressione) a favore della difesa legale degli insediamenti e del loro continuo sviluppo: il cosiddetto Caucus for Eretz Israel. Di questa lobby fanno parte anche molti deputati di Yesh Atid e Hatnuah, i due partiti “moderati” della coalizione di governo considerati di centro-sinistra, mentre altri rappresentanti di questi partiti, come Tzipni Livni e Yair Lapid, esprimono posizioni tiepide a favore della ripresa dei negoziati. Nel paese si registra un consenso sempre più ampio verso la “normalizzazione” degli insediamenti in Cisgiordania, considerati parte legittima del territorio israeliano. Proprio mentre il segretario di Stato Kerry arrivava nella regione, il governo di Tel Aviv ha annunciato la realizzazione di nuovi complessi residenziali a Gerusalemme est.

In tale contesto, è difficile pensare davvero che una soluzione definitiva sia vicina, “forse anche entro settembre” secondo l’ottimistica previsione di Kerry. Ancora più difficile capire quale tipo di architettura di sicurezza possa seguire e sostituire gli Accordi di Oslo, garantire un minimo di stabilità a Israeliani e Palestinesi e scongiurare una terza Intifada. Si tratta di cercare una soluzione di compromesso transitoria che permetta ai palestinesi della Cisgiordania di continuare ad accedere a parte sostanziale dei benefici economici assicurati dal governo Fayyad, che hanno in effetti garantito una certa stabilità anche in assenza di prospettive di pace. Il dubbio è se i quattro miliardi di aiuti prospettati da Washington a favore dell’economia palestinese saranno sufficienti in questo senso, e se Abbas e Hamdallah riusciranno ad arrivare al prossimo 10 agosto, scadenza del governo ad interim, almeno con una candidatura forte per il governo del Paese.