Lo scandalo “Datagate” ha raggiunto i livelli più alti della diplomazia con le dichiarazioni di capi di Stato e di governo – compresi il presidente italiano Giorgio Napolitano e naturalmente Barack Obama – e tocca direttamente i rapporti complessivi tra Europa e Stati Uniti. Lo conferma anche il mandato conferito dalle capitali europee a Catherine Ashton, che tecnicamente è il capo della diplomazia UE ma che, in realtà, è piuttosto un portavoce di posizioni comuni quando queste vengono raggiunte: il fatto stesso che sia stata incaricata di sollevare la questione con Washington testimonia dunque la sostanziale coesione tra i governi europei nel chiedere chiarimenti con durezza. C’è poi un ampio movimento di opinione a sostegno di tali posizioni, dal Parlamento europeo ai media, soprattutto in Germania. La Casa Bianca sembra in serio imbarazzo, ma c’è anche una certa irritazione per le reazioni forse eccessive degli europei – più probabilmente falsamente ingenue, e dunque ipocrite.
Siamo allora di fronte a una grave crisi transatlantica? Osservando la vicenda con un minimo di distacco e di prospettiva storica, i suoi contorni sono in effetti meno drammatici.
Il famigerato programma di sorveglianza informatica PRISM, che a quanto è dato sapere è stato avviato nel 2007 dalla National Security Agency americana, si muove in una vasta area grigia tra le normali tutele legali e i poteri eccezionali conferiti dall’allora presidente George W. Bush ad alcune agenzie per contrastare possibili gruppi terroristici. È però sotto la presidenza Obama che parte dei dati raccolti anche da PRISM sono stati utilizzati quasi certamente per colpire in modo diretto e letale bersagli al di fuori degli Stati Uniti: l’era dei droni è infatti legata soprattutto ai cosiddetti “omicidi mirati”. È proprio questa fusione tra i dati raccolti con vari strumenti (compreso il sistema di sorveglianza informatico) e gli attacchi dei velivoli speciali senza pilota, a costituire una novità nel panorama internazionale. Lo spionaggio (come il controspionaggio) è per definizione controverso e al di fuori delle normali regole, e lo è da sempre; ma Obama ha dimostrato ripetutamente di voler agire con strumenti coercitivi sulla base delle informazioni raccolte. È questo che rende l’intero dibattito molto più concreto e drammatico, anche per gli europei che pure non si considerano alla stregua, ad esempio, del Pakistan o dello Yemen – cioè potenziali bersagli. È chiaro comunque che, in ogni caso, si giustificano le preoccupazioni più gravi in relazione allo scandalo Datagate, che potrebbero riguardare perfino lo spionaggio di sedi diplomatiche ed istituzioni europee – per la verità con strumenti ben più tradizionali come le “cimici”, secondo quanto sta trapelando informalmente.
Non ha certo aiutato il fatto che, rivolgendosi ovviamente soprattutto alla sua opinione pubblica interna, Obama abbia difeso il sistema di sorveglianza precisando che, secondo la legge, non viene comunque usato per monitorare i cittadini americani; lasciando così intendere che le garanzie legali non si applicano ai cittadini stranieri.
Se il problema è dunque serio e complicato, esso non è certo nuovo. È cruciale dunque soprattutto capire quali sono le sue probabili ripercussioni politiche. Non c’è dubbio che queste rivelazioni rischiano di danneggiare i rapporti transatlantici, in un momento particolarmente delicato soprattutto per l’imminente avvio dei negoziati sulla nuova partnership economica (Transatlantic Trade and Investment Partnership, o TTIP). Visto che la liberalizzazione degli scambi in alcuni settori sensibili (come le alte tecnologie ma anche i servizi e le telecomunicazioni) è già controversa, l’intero negoziato potrebbe finire ostaggio delle recriminazioni sulla raccolta e la gestione di dati personali. La linea di demarcazione tra governi e attori privati, o tra rapporti diplomatici e mercati, non è infatti nettissima in questo settore, poiché nella vicenda sono coinvolte, volenti o nolenti, aziende di punta come Microsoft, Google, Facebook, Yahoo, dalle quali transitano enormi flussi di bit. Inoltre, lo spionaggio economico (non solo industriale, ma dei governi impegnati in negoziati internazionali) è da sempre contiguo a quello legato più direttamente alla sicurezza nazionale.
In ogni caso, se davvero i negoziati per la TTIP dovessero essere danneggiati, sarebbe una grande occasione persa per rilanciare sia il commercio euro-americano sia il più ampio dialogo su nuove regole e nuovi standard aggiornati alle esigenze del XXI secolo.
Una migliore comprensione dell’origine del problema può tuttavia aiutarci a superarlo o limitarlo. Una causa di fondo dell’apparente scontro in atto è la diversa visione delle priorità tra le due sponde dell’Atlantico: l’equilibrio tra privacy e sicurezza nazionale non è definito nello stesso modo, poiché negli Stati Uniti il governo ritiene di dover privilegiare l’accesso ai dati rispetto al diritto alla riservatezza individuale, mentre in Europa si tende a privilegiare la tutela del cittadino. In effetti, entrano in gioco fattori storici e culturali, per cui gli americani hanno finito per tollerare un ruolo crescente e intrusivo degli organi di sicurezza quando le minacce alla sicurezza nazionale sono parse elevate – in particolare dopo l’11 settembre 2001. Anche durante la guerra fredda, del resto, si sono verificate a intermittenza forti tensioni transatlantiche a fronte di interpretazioni divergenti della gravità della minaccia sovietica: è infatti proprio in quegli anni che si è consolidato il national security state negli USA, cioè l’apparato di sicurezza più grande e sofisticato al mondo che poggia, tra l’altro, sulla costante raccolta clandestina di informazioni. I servizi segreti ci sono dappertutto, ma quelli americani sono assai probabilmente più pervasivi degli altri.
Le attuali tensioni provocate dal Datagate sono allora meno sorprendenti e straordinarie di quanto possa sembrare, e saranno riassorbite pur lasciando alcune tracce negative sul piano della fiducia reciproca. Come altre volte in passato, una parziale soluzione starà nella concessione da parte di Washington di un qualche accesso al sistema per gli europei. Condividere parte delle conoscenze, anche relative al funzionamento del sistema stesso, sarebbe un primo passo per ristabilire la fiducia e discutere di come gestire l’accesso alle informazioni personali dei cittadini. Inoltre, rispetto alla grande sfida globale dei “cyber-conflitti” e della “cyber-competizione” a cui dobbiamo rapidamente abituarci, sono soprattutto paesi come la Cina, battitori liberi come i protagonisti di WikiLeaks, e ancor più pericolosi attori non-statuali, a dover preoccupare l’Occidente: sarebbe assurdo incrinare i rapporti di cooperazione transatlantici mentre nel mondo proliferano nuovi rischi e minacce di questo tipo.
Quel che sappiamo per certo è che le tecnologie non si dis-inventano e che i governi (anche quelli europei) non hanno mai rinunciato al potere sovrano di sospendere alcune garanzie costituzionali in particolari circostanze. Si tratta di capire se e in che misura le circostanze di oggi giustifichino le eccezioni, e quanto siano violati i diritti alla privacy di cittadini innocenti e ignari. Il rapporto transatlantico può superare questo momento delicato se ciascuno guarderà in faccia la realtà: le priorità degli americani sono importanti anche per noi europei (che beneficiamo spesso del loro apparato di sicurezza) e le priorità europee sono una componente fondamentale della comune eredità delle democrazie liberali.