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La strada accidentata della TTIP

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Si è appena concluso a Bruxelles il quarto round dei negoziati per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). Se venisse alla luce, l’accordo sarebbe un vero e proprio passo verso la creazione di un’area economica comune, dove il reciproco riconoscimento delle autorizzazioni rilasciate dalle autorità di sorveglianza dei mercati andrebbe di pari passo con la protezione degli investimenti privati.

Il cuore del trattato è l’armonizzazione normativa e regolamentare, che potrebbe diventare un possibile modello per altri futuri accordi commerciali.

Una ricerca indipendente (seppure finanziata dalla Commissione europea) parla di benefici pari a quasi 200 miliardi di euro. In realtà, considerato che l’impatto economico, soprattutto in Europa, è difficilmente valutabile, ad oggi l’unica certezza è che gli Stati Uniti e l’Unione Europea diventerebbero un solo grande mercato. Tutti gli aspetti relativi a regolamentazione e supply chain verrebbero unificati, con vantaggi immediati per le aziende capaci di sfruttare efficacemente le neonate economie di scala – a cominciare dalle grandi multinazionali, che infatti sono tra i maggiori sostenitori dell’accordo.

Gli ostacoli negoziali da superare sono enormi e non tutti di carattere economico: il clima di sfiducia reciproca causato dal datagate ne è un ottimo esempio. Le conseguenze dello scandalo sembrano aver intaccato profondamente i rapporti di fiducia tra UE e Stati Uniti, e hanno già rallentato il passo dei negoziati nella fase iniziale.

Alla diffidenza da parte delle élites politiche europee nei confronti degli Stati Uniti si somma lo scarso sostegno – o perfino la crescente opposizione – di un’opinione pubblica confusa da un accordo i cui contorni non sono ancora ben definiti. Ad oggi, tre sono i nodi più complicati nell’ambito delle trattative: la clausola relativa alla protezione degli investimenti, la protezione dei dati personali dei cittadini europei, e la commercializzazione di prodotti agricoli e i relativi standard di sicurezza alimentare (che si riflettono sull’infinita diatriba sugli OGM e la carne americana).

La clausola di protezione degli investimenti (investor-state dispute settlement, ISDS), permetterà agli investitori privati di citare in giudizio i governi nazionali presso una corte d’arbitrato, nel caso in cui gli investitori ritengano che nuove leggi locali minaccino i loro investimenti. Una clausola controversa che ad oggi ha scatenato proteste su entrambe le sponde dell’oceano, sia da parte della società civile che di molti governi europei. A livello politico, il maggiore oppositore è il governo tedesco, il quale ritiene il ricorso a corti esterne (di fatto aggirando le giurisdizioni nazionali) un attacco inaccettabile alla sua sovranità.

Inoltre, una parte dell’opinione pubblica e le ONG ritengono che questa clausola potrebbe essere usata per impedire qualsiasi scelta politica che potenzialmente danneggi gli interessi delle grandi multinazionali. Perciò, i negoziati sulla ISDS sono stati bloccati per 90 giorni: il tempo di aprire un tavolo di confronto da parte della Commissione europea con tutti gli interessati.

La questione della protezione dei dati si è trasformata dopo il datagate in un’altra fonte di reciproci dissidi. Il flusso e la gestione dei dati raccolti (data flow) rientra sotto varie forme all’interno del negoziato. Cosi come sottolineato dal capo negoziatore europeo Bercero, l’UE pone come priorità il rispetto delle norme europee sulla privacy.

Uno dei punti di maggiore contrasto riguarda l’inserimento di una clausola, voluta dagli Stati Uniti nel capitolo dell’e-commerce, che permetterebbe alle aziende IT di non aver alcun tipo di obbligo nel posizionare i loro server, e i dati ad essi relativi, a livello locale. Così, queste imprese potrebbero localizzare i server contenenti i dati degli utenti europei in paesi in cui le cui normative sulla privacy sono più blande. Il Parlamento europeo ha minacciato di respingere l’accordo se una tale clausola fosse inserita nel testo finale.

Un segnale di quanto serio sia il problema arriva peraltro dalla bocciatura, nel luglio 2012, dell’Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA, negoziato, oltre che da UE e Stati Uniti, da altri nove paesi) da parte proprio del Parlamento europeo, che poi fu seguito da molti stati membri. È chiaro che nel delicato settore della tutela dei diritti individuali tendono a coagularsi nel vecchio continente interessi assai diversi, con la capacità di compromettere qualunque accordo internazionale.

Un altro capitolo scottante riguarda gli organismi geneticamente modificati (OGM) la cui commercializzazione è di fatto vietata in Europa. Da una parte gli Stati Uniti vorrebbero superare il ventennale bando europeo contro i prodotti delle loro grandi aziende agritech. Anche in questo caso, molti Stati europei (Germania in primis, ma anche Francia, Italia e paesi Scandinavi) non hanno espresso alcun consenso per questo cambio di rotta, mentre dall’altra parte dell’oceano la spinta sui negoziatori per riuscire a includere tale apertura nell’accordo finale è enorme. La sicurezza alimentare è uno dei punti chiave del trattato, e altri settori contigui pongono problemi simili, a cominciare da quello medico-farmaceutico.

Anche per superare l’impasse nei negoziati, il presidente Barack Obama sarà a Bruxelles il 26 marzo. Nella sua agenda politica l’avanzamento dei negoziati sul TTIP ricopre un ruolo di alta priorità. Nel caso – improbabile – in cui Obama e i negoziatori riescano a sciogliere i principali punti di contrasto, le possibilità che l’accordo venga ratificato da parte del Consiglio e del Parlamento europeo non sono comunque molte. In seno al Consiglio, emergono i dubbi di Germania e Francia, ma anche di alcuni Stati scandinavi e mediterranei. Il Parlamento invece potrebbe farsi portavoce del movimento di protesta che dall’opinione pubblica cresce contro l’approvazione del trattato. Inoltre, le elezioni europee a maggio esprimeranno un parlamento in cui le posizioni pro-liberalizzazione saranno più deboli rispetto ad oggi.

In definitiva, c’è il concreto rischio che, pur di trovare la quadratura del cerchio, molti dei capitoli più complessi vengano eliminati o temporaneamente accantonati, e il compromesso finisca per non incidere sostanzialmente sulla situazione attuale. In ogni caso, la scadenza fissata per la fine 2014 sembra assai ottimistica, considerando che i negoziati sono ancora in fase preliminare. Più realisticamente se ne riparlerà per fine 2015, quando l’amministrazione Obama – a quel punto nel suo ultimo anno in carica – sarà pronta a concedere qualcosa agli europei pur di firmare un accordo che considera parte rilevante della sua eredità politica.