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La speranza dell’Egitto: conversazione con Ala al-Aswani

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“Un bravo medico non deve mai curare solo i sintomi, ma andare alla ricerca della malattia perché solo attraverso la sua cura i sintomi scompariranno. La malattia egiziana è la dittatura: povertà, fanatismo e corruzione sono solo alcuni dei suoi sintomi. Dobbiamo curare la prima per evitare che i sintomi si trasformino in complicanze“, spiega Ala al-Aswani nel pieno delle giornate della collera egiziana.

Pur continuando a esercitare la sua professione di dentista, Ala al-Aswani è da anni l’autore dei romanzi più venduti nel mondo arabo: Palazzo Yacoubain prima, e Chicago poi. Tradotto in più di trenta lingue, Aswani è stato un attivista sin dai tempi di Kifaya – il movimento per il cambiamento che nel 2004 ha preso le strade del Cairo per opporsi al governo. Per esprimere le sue critiche al governo, da anni scrive anche sulle colonne di alcuni giornali egiziani di opposizione. Pur non essendo un organizzatore delle recenti giornate di protesta, Aswani le ha sostenute sin dall’inizio, sfilando in strada a fianco dei ragazzi che hanno cantato slogan antigovernativi e chiedendo al raìs Mubarak di abbandonare il paese.

Incontro Aswani a latere di uno degli incontri dell’Assemblea Nazionale per il Cambiamento al quale partecipa attivamente. Questa coalizione di opposizione comprende il partito liberale Ghad di Ayman Nour – l’unico che fino a ora è riuscito a sfidare Mubarak alle elezioni del 2005 – il movimento di Kifaya, alcune forze nasseriste, i Fratelli musulmani e il Movimento per il Cambiamento di Mohammed El Baradei. Sta lavorando per decidere come affrontare questa fase di transizione, preparando un’alternativa credibile all’attuale regime.

Quale è stato il fattore che ha spinto gli egiziani a superare la paura e prendere l’iniziativa contro il regime?

Questo è il segreto di tutte le rivoluzioni. La rivoluzione in sé è in primis uno stato mentale. In Egitto è almeno dal 2003 che si accumulano tensioni, con una crescente frustrazione della popolazione. Nella mente degli egiziani ha iniziato a maturare la consapevolezza di essere trattati in modo ingiusto e umiliante. Quando tale consapevolezza si realizza in pieno, gli individui vedono nella rivoluzione il modo per cambiare le proprie condizioni di vita.

Le manifestazioni di questi giorni sono state guidate da un gruppo di giovani dimostranti che si sono organizzati autonomamente. Cosa faranno i leader dei movimenti politici di opposizione per trarre vantaggi dalla rivolta?

Al momento nessun leader di opposizione può dire di essere a capo delle manifestazioni. Quella che ha conquistato le strade è una nuova generazione di giovani attivisti con un buon grado di istruzione, esausti del regime e delle sue umiliazioni. Hanno richieste politiche e sociali, ma sono privi di una guida. Per questo i leader dei movimenti di opposizione stanno cercando di aiutarli. Vogliono parlare con loro e trasformare la loro vittoria per le strade in successi politici. Nessuno vuole prendersi i meriti di quanto hanno ottenuto fino ad ora. Questa è la loro rivoluzione.

Ancora prima che scoppiasse questa rivolta, in Occidente molti temevano che l’unica alternativa al regime fosse una rivoluzione islamica: qual è la situazione da questo punto di vista?

In Occidente esistono enormi pregiudizi e si fanno grandi semplificazioni. Contrariamente a quanto si crede, c’è una grande differenza tra i Fratelli musulmani e la maggior parte degli egiziani credenti e praticanti. Non tutte le donne che portano il velo sostengono la Fratellanza. È vero che negli ultimi trent’anni sempre più donne si stanno velando, e l’Islam egiziano sta vivendo un ritorno al conservatorismo. A causare questo è l’influenza wahabita sulla nostra società. Molti egiziani vanno a lavorare in Arabia Saudita e quando tornano a casa portano con loro i costumi sauditi, decisamente più restrittivi dei nostri. Tutto ciò però non vuol dire che l’unica alternativa al regime sia uno stato islamico, come proprio il regime ha voluto far credere per anni. Quanto sta accadendo lo conferma: le manifestazioni di strada non sono state guidate dai Fratelli musulmani. Tra i leader che stanno appoggiando i giovani ci sono solo un paio di personaggi di spicco che vengono dai ranghi dell’organizzazione. Non c’è alcun rischio che si ripeta in Egitto quanto è accaduto in Iran nel ‘79. Sono contesti diversi e società diverse.

Una parte della popolazione che teme per il futuro è la comunità copta: pur essendo stanca del regime, ha paura che in un nuovo Egitto ci sarà ancora meno spazio per loro. Fanno bene a preoccuparsi?

Secondo me non esiste neanche questo rischio. Il problema, emerso anche con gli avvenimenti della notte di capodanno – quando una chiesa alessandrina è stata vittima di un attacco – è che il regime non è più capace di garantire la sicurezza ai suoi cittadini, tanto i copti che i musulmani. Attualmente gli egiziani vogliono solo liberarsi del regime e voltare pagina, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa. Nelle strade c’erano anche dei copti, ma non si sono sentiti slogan settari e nessuno ha combattuto in nome di Allah.

Quale sarà l’effetto di quanto sta accadendo in Egitto nella regione?

Quello che accadrà in Egitto influenzerà, positivamente o negativamente, i paesi vicini. È la storia a confermarcelo. Quando l’Egitto è stato rivoluzionario, tutta la regione era rivoluzionaria, quando l’Egitto si è aperto agli Stati Uniti, tutti gli altri paesi hanno iniziato a farlo. Questa è proprio una delle ragioni per le quali la Casa Bianca ha paura di dare sostegno alla gente che è in strada a lottare per i suoi diritti. Se la nostra rivoluzione avrà successo – come credo – nel giro di due anni ci saranno almeno altri due o tre paesi che si libereranno del loro dittatore. È arrivata l’ora della fine delle dittature post-coloniali.

Un nuovo governo popolare democraticamente eletto accetterebbe il trattato di pace con Israele o ne richiederebbe la revisione?

Certo che lo accetterebbe. Non è vero, come ha raccontato il regime, che qualora ci fosse una transizione l’Egitto volterebbe le spalle a Israele, buttando il trattato nella spazzatura e non rispettando i suoi impegni internazionali. Non sarebbe negli interessi di nessun nuovo governo entrare in conflitto con altre potenze. Un nuovo governo cercherebbe però di interpretare il trattato con Israele diversamente, per tutelare gli interessi dei cittadini e non solo quelli del regime e dei suoi pochi sostenitori. Gli israeliani non stanno vedendo in modo chiaro la situazione: avere un trattato di pace con un governo democraticamente eletto sarebbe nei loro interessi, perché nessun regime dittatoriale e corrotto garantisce la trasparenza delle sue azioni.