La sovranità dell’Italia è limitata? Certo, lo è da decenni. Fare parte dell’Unione Europea significa, per tutti i paesi, cedere (il termine giusto è questo, dicono i giuristi) una quota della propria sovranità nazionale. L’integrazione europea – termine burocratico, che certo non istilla passioni – si basa appunto su questo presupposto: una cessione volontaria e definitiva, da parte dei paesi membri, di quote della propria sovranità. È questa caratteristica, ha scritto la Corte di Giustizia europea in una famosa sentenza, a differenziare l’Unione Europea da un normale Trattato internazionale.
Caso ovvio è l’euro: entrando nella moneta unica, abbiamo rinunciato a una leva tradizionale – la moneta – della sovranità degli Stati nazionali moderni. In modo più raffinato, i politologi spiegano che questa cessione di sovranità equivale a una “condivisione” (shared sovereignty). L’unico modo, aggiungono, in cui i paesi europei possono sperare di mantenere un’influenza nel mondo di oggi, dominato da giganti. Obiettivo (o meglio speranza): si cede sovranità, condividendola, per mantenere una capacità di influenza collettiva.
Se l’Italia era già, come tutti gli altri membri dell’Unione Europea, Germania inclusa, un paese a sovranità limitata, cosa c’è che non va nelle dinamiche esplose a Bruxelles?
Lasciamo da parte l’aspetto formale – anche se è evidente che la coppia Merkel-Sarkozy avrebbe avuto tutto l’interesse a non violare la forma, mentre sta cercando di imporre ai paesi deboli dell’euro un’amara sostanza, ossia nuovi vincoli alle politiche di bilancio. Il problema è che l’Italia, la terza economia dell’euro, è fra chi subisce questi vincoli, piuttosto che fra chi li scrive.
La ragione la sappiamo: l’Italia è resa vulnerabile dal debito pubblico accumulato. Se il problema è la crisi del debito sovrano, l’Italia è parte del problema. Potrebbe essere parte anche della soluzione se tutti gli sforzi interni del paese fossero indirizzati in modo chiaro, coerente, consistente, a mettere la casa in ordine (con un mix di riduzione delle spese e di rilancio della crescita attraverso riforme). Tutti pensano – italiani ed europei, Stati e mercati – che questo impegno coerente e consistente non ci sia ancora stato. È per questo che l’Italia resta solo parte del problema. Lo sarebbe anche con un governo diverso, se questo governo diverso latitasse a sua volta su riforme che vengono annunciate da decenni e non sono mai state attuate.
Aggiungo un secondo punto, forse meno scontato. Per più di mezzo secolo, la classe politica italiana ha usato volentieri l’Europa come un “vincolo esterno”: come una leva in più per imporre a un paese riottoso e con troppe resistenze corporative una serie di scelte difficili. L’Italia, come paese fondatore della vecchia Comunità europea, aveva contribuito a scrivere quel vincolo; e intendeva usarlo – molte volte lo ha usato – per modernizzare il paese. Ecco: c’è una differenza fra il “vincolo esterno” e gli attuali ultimatum da parte della coppia franco-tedesca. Nel primo caso, l’impressione era ancora di agire “nel nome dell’Europa”. Le istituzioni comuni non erano ancora state marginalizzate.
Nel caso di oggi, la pressione viene invece da una coppia, quella franco-tedesca (“Merkozy”), che è l’unico game in town rimasto, l’unica fonte di leadership che si veda in giro, ma che manca a sua volta di parecchi ingredienti: ha gestito tardi e male la crisi greca, è divisa al suo interno (conta la Germania, la Francia non ha un peso uguale), non ha alcuna legittimità (se non quella che le deriva dalla pochezza degli altri) a considerarsi la guida esclusiva dell’Europa, con le istituzioni a traino. E ci sono molti dubbi sul fatto che la “ricetta tedesca” per uscire dalla crisi possa funzionare. Il rischio di curare il debito piombando nell’austerità è un rischio vero. Il problema è che tutto il resto (gli altri paesi, l’assetto istituzionale di Lisbona) sembra essersi liquefatto alla prima crisi dell’euro.
Per sopravvivere come grande economia dell’euro, l’Italia deve fare comunque riforme troppo a lungo rimandate. Il tempo dei rinvii è scaduto: non perché lo dicono Parigi e Berlino ma perché lo dice la curva degli spread. Curando se stessa, l’Italia ritroverebbe una voce in Europa. E sarebbe importante, per noi e per l’Europa, che la voce italiana pesasse. Un’Italia capace di riforme essenziali, potrà pesare a favore di risposte più avanzate alla crisi finanziaria (gli eurobonds cari a Giulio Tremonti vanno in questa direzione); potrà influenzare una eventuale riforma dei Trattati (il tema sarà comunque sul tavolo nei prossimi mesi: includerà regole, sanzioni e strumenti relativi al governo economico della zona euro) e potrà porre sul tavolo di Bruxelles un punto essenziale. I paesi europei hanno messo in comune quote della propria sovranità nazionale non per creare dei “direttori” informali ma perché credono in istituzioni comuni rispettate e in regole che valgano per tutti (è sempre utile ricordare che Francia e Germania hanno violato a loro tempo il Patto di Stabilità).
Che la lezione di Bruxelles, insomma, serva almeno a qualcosa. L’Italia ha una sovranità limitata esattamente come la Germania e la Francia: lo abbiamo voluto, fondando l’Europa. La crisi finanziaria sta erodendo ulteriormente la sovranità degli Stati europei, anzitutto per ciò che riguarda la politica di bilancio. Il volto dell’UE si sta modificando, sotto lo shock della crisi: la sfida, per l’Italia, è di non restarne ai margini. Le riforme economiche faranno la differenza fra la cessione/condivisione e la perdita pura e semplice di sovranità nazionale.