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Addio alle armi: il lungo percorso dell’ETA

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L’annuncio della “cessazione definitiva dell’attività armata” da parte dell’ETA, lo scorso 20 ottobre, rappresenta uno spartiacque nella storia della Spagna contemporanea. Pur non avendo ancora dichiarato la propria formale dissoluzione, che dipenderà dagli sviluppi dei prossimi mesi, esce di scena un’organizzazione responsabile di 829 omicidi in 43 anni, la cui esistenza ha rappresentato il principale dei nodi irrisolti della democrazia instauratasi dopo la morte di Francisco Franco nel 1975.

Nata nel 1958 per combattere la dittatura attraverso “l’azione diretta”, di ideologia nazionalista e marxista-leninista, l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna, Paese Basco e Libertà in lingua basca) conosce nei primi due decenni della propria vita diverse scissioni, la principale delle quali la vede dividersi, nel 1973, in due tronconi: il “militare” e il “politico-militare”. Allo stabilirsi del regime costituzionale nel 1978, nessuno dei due decide di abbandonare le armi, ritenendo la nuova fase in continuità con il franchismo. Tuttavia, l’ETA “politico-militare” intraprende un cammino che la porta a sciogliersi nel 1982, considerando l’autonomia della regione basca all’interno dello stato spagnolo una ragione sufficiente per dedicarsi in modo esclusivo alla lotta politica legale. L’ETA “militare”, che d’ora in avanti si chiamerà semplicemente ETA, continuerà invece a utilizzare la violenza.

Il comunicato del 20 ottobre era in una certa misura atteso. Da tempo si  moltiplicavano i segnali in tal senso, provenienti dal mondo della cosiddetta sinistra abertzale (patriottica in basco), l’area politica dell’indipendentismo radicale affine all’ETA. L’antefatto diretto è stato una conferenza internazionale, tenutasi tre giorni prima a San Sebastián, organizzata per iniziativa della stessa sinistra abertzale. Nell’occasione, che ha visto presenti, tra gli altri, Kofi Annan e l’ex primo ministro irlandese Bertie Ahern, era stato lanciato un doppio messaggio: la richiesta solenne all’ETA di abbandonare le armi, e la raccomandazione al governi spagnolo (come a quello francese) di mostrarsi disponibile al dialogo “sulle conseguenze del conflitto” nel momento in cui il movimento avesse preso quella decisione.

Nel presentare la propria scelta, il gruppo terrorista sostiene di aver liberamente accolto questa raccomandazione, celebrando il nuovo scenario come “un’opportunità creata dalla lotta di molti anni”. Le cose, naturalmente, non stanno così. Per comprendere gli sviluppi attuali, bisogna risalire almeno al 2004, quando il Partito socialista vince le elezioni politiche pochi giorni dopo la strage della stazione di Atocha a Madrid, perpetrata da una cellula legata ad al Qaeda. Il nuovo esecutivo, guidato da José Luis Rodríguez Zapatero, decide di tentare la strada della trattativa con l’organizzazione armata basca. Nel marzo 2006, l’ETA dichiara un “cessate il fuoco”, disponendosi a intavolare un negoziato.

A differenza di quanto accaduto nel 1989 (con il governo socialista di Felipe González) e nel 1999 (con governo popolare di José Maria Aznar), il tentativo di dialogo condotto da Zapatero non gode di appoggio unanime. Il Partido Popular lo contrasta con durezza, anche attraverso imponenti manifestazioni di piazza. Alla fine dello stesso anno, comunque, l’ETA pone fine alle trattative: nel parcheggio dell’aeroporto di Madrid-Barajas esplode una bomba che costa la vita a due cittadini ecuadoregni. Da quel momento, il governo archivia ogni ipotesi di ulteriore negoziato, per cui rischierebbe di pagare un prezzo politico troppo alto a vantaggio dell’opposizione popolare. Nei mesi successivi, l’azione delle forze di polizia spagnole, in collaborazione con quelle francesi, porta ad una decimazione degli effettivi dell’organizzazione terrorista; l’ultimo dirigente di peso ancora in libertà, Mikel Karrera, viene arrestato nel maggio del 2010.

Il gravissimo indebolimento del gruppo dirigente e della struttura militare è dunque uno dei fattori decisivi che hanno condotto l’ETA a dichiarare la fine delle azioni violenti. Ma non è il solo: di grande importanza appare la divergenza con quello che è approssimativamente definibile come suo “braccio politico”. Secondo le ricostruzioni più accreditate, i principali dirigenti della sinistra abertzale, tra cui Arnaldo Otegi, non hanno condiviso la rottura unilaterale della “tregua” del 2006, ritenendo ormai impraticabile la strategia “politico-militare” dei decenni precedenti. In una sorta di lotta per l’egemonia all’interno dell’indipendentismo radicale, durata cinque anni, i fautori della via esclusivamente politica finiscono per avere la meglio, isolando i vertici dell’ETA dalla base sociale di riferimento.

La novità si manifesta concretamente nella scelta della sinistra abertzale di partecipare alle elezioni municipali del maggio 2011, accettando di rispettare la Ley de partidos, cioè la norma che implica un’esplicita dichiarazione di rifiuto del terrorismo. Lo statuto di Bildu (questo il nome della coalizione: “ricostruire” in basco) accetta i requisiti previsti dalla stessa legge che ha portato nel 2003 allo scioglimento della storica  formazione politica della sinistra abertzale, Herri Batasuna.  È una svolta per il mondo dell’indipendentismo radicale: il principio per cui la violenza è un mezzo per ottenere obiettivi politici viene abbandonato. Se si considera che, in più di trent’anni di vita democratica, le organizzazioni politiche affini all’ETA avevano sistematicamente rifiutato di condannare le centinaia di omicidi effettuati dalla banda, è evidente la portata del cambiamento.

La cittadinanza basca premia la scelta di scommettere solo sulle vie pacifiche da parte del nazionalismo radicale: Bildu ottiene il 26% dei suffragi, una percentuale di gran lunga superiore a qualunque precedente risultato della medesima area politica, il cui massimo storico si attestava al 18%. E i sondaggi lasciano pensare che le elezioni politiche del prossimo 20 novembre vedranno confermarsi questi risultati.

Al nuovo governo spagnolo spetterà gestire la delicata fase di disarmo e smobilitazione dell’organizzazione terroristica: ciò che nel gergo degli indipendentisti va sotto il nome di “conseguenze del conflitto”. In primo luogo, si tratta del destino dei più di 700 detenuti e delle decine di latitanti appartenenti all’ETA. Anche alcuni dei capi della sinistra abertzale, come Otegi, hanno processi a loro carico: una complicata situazione in cui andrà risolta la contraddizione fra la logica penale e la “ragion politica”. Non mancheranno polemiche dei settori più conservatori dell’opinione pubblica spagnola, che già mettono in guardia dal “fare concessioni ai terroristi”, così come richieste di amnistia da parte del nazionalismo basco radicale, impossibili da soddisfare perché vietate dalla Costituzione.

Ma tra le molte eredità del conflitto vanno annoverate soprattutto le ferite ancora non rimarginate di migliaia di parenti e amici delle vittime dell’ETA, accanto a odio e incomprensioni accumulatisi in decenni di durissimo scontro politico. Dopo anni di violenza, in cui non sono mancati gravissimi episodi di repressione antiterrorista attraverso metodi illegali (come le “esecuzioni extra-giudiziarie” di bande paramilitari e torture da parte delle forze di polizia), la normalizzazione della vita democratica non sarà impresa facile. Dipenderà dall’attitudine di tutti gli attori in campo, ma soprattutto dalla disponibilità degli ex-terroristi, e di quanti hanno condiviso per decenni i loro metodi, di riconoscere l’enorme sofferenza causata alla società basca e a quella spagnola nel suo insieme.