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La sovranità contesa di Cipro – e la crisi vista dall’isola

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L’attuale crisi in corso a Cipro può essere letta, oltre che in chiave economico-finanziaria, come una delle fasi più acute della lotta per la “sovranità” di questa piccola isola che geograficamente rappresenta l’estremo confine sud-orientale dell’Europa. Per ampi settori dell’opinione pubblica cipriota, infatti, tanto la troika quanto l’Eurogruppo sono manifestazioni più o meno invasive e aggiornate del potere straniero di turno che tenta di condizionare la libertà della repubblica.

Questo spiega perché nelle settimane scorse è stato ripetutamente evocato, sulla stampa come sui cartelli dei manifestanti davanti al parlamento di Nicosia, il lungo elenco delle dominazioni straniere: da Riccardo Cuor di Leone a Guy de Lusignan, da Venezia all’Impero Ottomano, fino all’amministrazione britannica terminata solo nel 1960 con la raggiunta indipendenza nazionale. L’elenco – che appaia in un editoriale, su una vignetta satirica o su uno striscione – termina sempre con lo stesso nome: Angela Merkel.

L’indipendenza di quella prima fase durò solo quattordici anni, fin quando cioè la Turchia (nel luglio 1974) invase militarmente il nord di Cipro amputando alla giovane repubblica circa il 40% del proprio territorio. Ad oggi unicamente Ankara riconosce la sedicente “Repubblica Turca di Cipro del Nord” (turco-cipriota), mentre per la comunità internazionale solo la Repubblica di Cipro (greco-cipriota) ha diritto alla totale sovranità sull’isola; nonostante l’apertura dal 2007 di quattro check point lungo i 180 km di confine, la divisione rimane al momento un dato di fatto.

Lo stesso esito negativo del referendum del 2004, quando a sorpresa la maggioranza dei greco-ciprioti votò contro l’unificazione a differenza dei turco-ciprioti che si espressero a favore, può essere spiegata con il richiamo al tema fondamentale della sovranità “mutilata”. Infatti, se è vero che agli occhi degli osservatori internazionali il “no” al piano ONU (promosso all’epoca da Kofi Annan) sembrò un egoistico rifiuto del sud benestante ad avviare una nuova pagina di distensione e normalizzazione dopo trent’anni di muro contro muro, occorre analizzare meglio le ragioni sostanziali di quella chiusura. L’aspetto economico, che sarebbe gravato quasi esclusivamente sulle spalle della parte greca, non fu difatti il solo motivo del diniego referendario. Quello che spinse a rigettare l’unificazione furono due fattori strettamente legati al concetto di sovranità.

Il primo fu l’opposizione ad un accordo che avrebbe permesso ai turco ciprioti e ad Ankara (di fatto, l’aggressore del 1974) di trasformare un’annessione militare in “successione” territoriale. Il loro diritto al territorio nazionale, implementata dal massiccio invio di coloni dalla madrepatria turca dopo l’operazione militare (calcolabile in circa 100.000 unità), sarebbe stato per sempre legittimato. Il secondo fattore fu la scelta di Annan di affidare, in caso di successive controversie, l’arbitrato a organismi (stati o organizzazioni internazionali) non ciprioti, togliendo alla comunità greca qualsiasi voce autonoma in capitolo.

Con questo difficile background, la repubblica di Cipro è così prima entrata nell’Unione Europea (2004) e poi anche nell’unione monetaria (2008). Una scelta che certamente aveva le sue giustificazioni sul piano identitario, per sottolineare le comuni radici europee della componente greco-cipriota, in questo assai diversa dai cugini turchi con le loro ascendenze anatoliche.

Oggi però scopriamo che sin dal principio dell’avventura europea le ragioni di ordine pratico, ovvero l’assetto economico-finanziario dell’isola, poggiavano su basi ambigue. La corruzione del sistema politico cipriota, come sta emergendo dalla commissione d’inchiesta parlamentare composta da tre ex giudici della Corte Suprema, porta di giorno in giorno alla luce enormi responsabilità e connivenze tra sistema politico e bancario.

Anzitutto, i forti legami con Atene emergono ora in tutta la loro criticità, nel contesto pericoloso e instabile della crisi dei debiti sovrani europei. La Laiki Bank (il secondo istituto di credito del paese), per citare un solo esempio, era una banca cipriota divenuta di proprietà greca che negli ultimi anni ha acquistato grandi quantità di titoli tossici di Atene, contribuendo alla bancarotta. Più ampiamento, comunque, quando Cipro nel 2008 è entrata a fare parte del club dei 17, la grande crisi del debito era ormai imminente e il sistema bancario assolutamente inadatto a gestirla. Anche gli interessi dei capitali russi, di cui si è molto scritto, sono stati una distorsione del sistema le cui responsabilità cipriote devono per lo meno essere condivise con quelle delle autorità europee, incapaci sino a questo momento di dotarsi di un sistema bancario uniforme e integrato (come di uno fiscale, d’altronde). Se Mosca ha cercato di giocare un ruolo nei criteri del salvataggio cipriota, forse tutte le colpe non andrebbero ascritte a Nicosia.

A indispettire i ciprioti proprio nei momenti successivi al salvataggio (bail-out ma, in questo caso, col prelievo forzoso ai danni dei correntisti, vero e proprio bail-in) sono state in particolare le dichiarazioni di Jeroen Dijsselbloem, il presidente di turno dell’Eurogruppo con l’infelice frase su “Cipro come modello” per altri potenziali salvataggi. Ma a minare la fiducia nell’Europa è stata ancor più la dichiarazione che il parlamento cipriota non sarebbe stato chiamato a esprimersi sulle decisioni prese dall’Eurogruppo a Bruxelles al termine della risolutiva maratona di 12 ore di domenica 24 marzo.

La sensibilità cipriota è stata inoltre urtata da un dettaglio, che è sfuggito a pochi: il fatto che il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, in vista di quella riunione decisiva, abbia mandato a prendere il capo di Stato cipriota Nicos Anastasiades nientemeno che da un aereo militare belga. Un apparecchio civile, probabilmente nelle disponibilità del presidente del Consiglio Europeo, avrebbe dato agli eventi un significato meno cogente.

Certo l’Eurogruppo temeva un altro “no” da parte dei deputati di Cipro (che avevano rigettato il primo piano di prelievi generalizzati anche dai depositi inferiori ai 100 mila euro), e così si è rifatto a una legge bancaria approvata qualche giorno prima da Nicosia per trovare una copertura politica implicita al secondo piano di salvataggio che scongiurasse un nuovo voto. Tuttavia, né i criteri né le modalità di comunicazione scelte da Bruxelles hanno convinto la maggioranza dei ciprioti, anche perché all’orizzonte si annuncia lo scontro geopolitico sulle riserve di gas naturale scoperte di recente nel mar Egeo, una circostanza che in molti vedono direttamente collegata all’attuale crisi.

In questo confronto tra giganti, Cipro dovrà insomma vedersela con Russia, Turchia ed Europa (in concreto, soprattutto Germania), e con gli Stati Uniti (in apparenza alla finestra, ma tutt’altro che indifferenti al tema energia nel Mediterraneo). La crisi del sistema bancario (anche la Russia vanta ingenti crediti nei confronti di Nicosia) come arma di ricatto delle potenze straniere per esercitare un’opzione sul gas cipriota è insomma la principale paura – ma per molti certezza – nel paese.

Cipro, in ultima analisi, è un anello periferico della catena dell’eurozona e verrà probabilmente sottoposto a pressioni che avranno un grande impatto sul suo futuro. Se da Bruxelles giungeranno messaggi di vicinanza, protezione e solidarietà l’agenda che attende i ciprioti sarà ardua ma percorribile; se viceversa l’Europa mostrerà solo il volto del rigore e del verticismo tecnocratico (e manderà a prendere altri presidenti “indisciplinati” usando aerei militari), la crisi difficilmente si placherà.