Spesso si rimprovera all’Occidente di non avere una posizione coerente e comune rispetto alla dimostrazione di forza messa in atto negli ultimi giorni da Vladimir Putin. Dal canto suo, la Russia sembra non voler in alcun modo rinunciare alla sua influenza sul territorio ucraino, di importanza capitale per Mosca. Questo spiega il mancato riconoscimento del nuovo governo insediato a Kiev dopo la fuga di Viktor Yanukovich, il sostegno alle rivolte nella parte del paese dove l’elemento russofilo è maggioranza, l’occupazione di fatto della regione autonoma di Crimea.
I membri dell’Unione Europea così come gli Stati Uniti hanno, in effetti, reagito con sorpresa e ritardo agli sviluppi degli avvenimenti ucraini. Probabilmente perché nessuno si aspettava che il potere di Yanukovich si sarebbe sciolto tanto rapidamente di fronte alla tenacia dei dimostranti. Ma la fine del vecchio regime non cancella i problemi geopolitici che riguardano l’Ucraina, e che bisogna tenere in considerazione per elaborare qualsiasi strategia in vista di una soluzione all’attuale crisi.
Il paese è al centro di una rete di gasdotti che forniscono energia dalla Russia all’Europa centrale e meridionale (in particolare a Germania, Italia e Balcani), e che già nell’inverno del 2006 è stata bloccata per tre giorni a causa delle ritorsioni russe alla svolta economica filo-occidentale che Kiev fece all’epoca. La Russia è impegnata, insieme a Germania e Italia, nella costruzione di linee di rifornimento sottomarine che sostituiscano il transito del gas in Ucraina e in altri stati europei orientali – togliendo dunque a questi la capacità di interferire sui flussi. Tuttavia, nonostante l’apertura di North Stream sotto al mar Baltico un anno e mezzo fa, si calcola che dalle tubature costruite sul territorio ucraino passi ancora tra il 60 e l’80% del gas diretto in Europa.
Chi si fermi a guardare la mappa della regione non può poi ignorare che l’Ucraina è l’anello fondamentale della catena di stati, dal Kazakistan alla Bielorussia, con cui Mosca sta costruendo un’unione doganale di scambi. Unione che perderebbe buona parte del suo significato se l’economia di Kiev si legasse del tutto a quella dell’Unione Europea, generando un possibile effetto-domino (naturalmente negativo per Mosca) sugli altri regimi dei paesi eurasiatici.
La penisola di Crimea, costituzionalmente autonoma da Kiev, è inoltre considerata da Mosca, a tutti gli effetti pratici, un’appendice del suo territorio. A Sebastopoli staziona una parte della flotta russa dalla fine del Settecento, e un accordo tuttora in vigore e firmato proprio da Putin e Yanukovich sancisce, in cambio di uno sconto sul prezzo del gas fornito all’Ucraina, che le 25 navi da guerra e i 13.000 soldati russi resteranno in Crimea fino al 2042. La base di Sebastopoli è stata utile alla Russia per i blocchi marittimi organizzati durante la guerra contro la Georgia nel 2008 e come base di partenza per sbarchi di truppe. Si è poi rivelata di importanza strategica in tutte le operazioni in cui la Russia è stata coinvolta nello scenario mediterraneo e mediorientale: la guerra libica, le missioni antipirateria e la crisi siriana.
Vladimir Putin sa certamente che la situazione in Ucraina non tornerà quella di prima. Tuttavia, le sue recenti operazioni hanno l’obiettivo di riequilibrare almeno un po’ la bilancia in favore della Russia, alla vigilia di possibili future trattative. Non era dunque semplice per i paesi occidentali – che, va ribadito, hanno in vario grado importanti interessi comuni con quelli russi – elaborare una risposta comune alle mosse del Cremlino.
La lunga telefonata tra Putin e Barack Obama nello scorso fine-settimana testimonia di buona volontà, ma anche di una certa mancanza di chiarezza strategica. La Casa Bianca si è infatti limitata a chiedere a Putin di “impegnarsi” al più presto con Kiev sul piano negoziale e di accettare l’arrivo di osservatori internazionali in loco, naturalmente criticando lo sbarco di truppe in Crimea come illegale ai sensi del diritto internazionale.
Obama però non ha potuto illustrare a Putin nessuna proposta alternativa, nessuna versione americana di come dovrebbero andare le cose – forse anche perché consapevole della delicatezza della questione ucraina per il Cremlino, per cui sarebbe impossibile accettare qualsiasi diktat da oltreoceano. La nomina nel nuovo primo ministro ucraino Arseni Jacenjuk, in passato ministro degli Esteri e proveniente dal partito di Yulia Timoshenko (fortemente sostenuto dagli USA) è da considerarsi un risultato già significativo per la Casa Bianca.
Bisogna ricordare infatti che Stati Uniti e Unione Europea, con il cambio di governo a Kiev, ottengono comunque una sostanziosa modifica degli equilibri a proprio vantaggio, con il minimo impegno. Sia Bruxelles che Washington infatti, ben prima dell’annunciato fallimento delle trattative per includere l’Ucraina nell’accordo di associazione con l’UE, avevano accettato di fatto che il paese rientrasse nell’orbita di influenza di Mosca.
Gli Stati Uniti sono soprattutto impegnati a non rispondere a nessuna delle provocazioni di Putin, né a offrire alla Russia alcun pretesto per un intervento ancora più diretto. Da un lato, il presidente ad interim in attesa di nuove elezioni, Oleksandr Turcinov, ha posto il veto alla legge che avrebbe tolto al russo lo status di seconda lingua dello stato – per non offrire alla comunità russofona ulteriori motivi di dissidio. Dall’altro, l’esercito ucraino è stato sì messo in stato di allerta con l’attivazione della riserva, ma sarà comunque tenuto lontano da ogni reazione diretta alle operazioni russe: Mosca dovrà assumersi tutta la responsabilità, davanti all’opinione pubblica internazionale, di eventuali ultimatum o attacchi diretti. Se lo facesse, potrebbe perdere così l’unico sostegno che al momento ha: quello della Cina, a sua volta incerta tra un generico appoggio diplomatico a Mosca e la sua tradizionale posizione contraria a qualsiasi forma di separatismo.
L’opzione dell’isolamento diplomatico di Putin è quella che convince di più la Casa Bianca, convinta che la Russia non possa sostenere a lungo una tale condizione: il rinvio del prossimo G8 che si sarebbe dovuto tenere proprio a Sochi è il primo passo possibile. Si tende invece a sottovalutare, in queste giornate convulse, una questione fondamentale per la tenuta del nuovo stato ucraino: Kiev è sull’orlo della bancarotta. Gli USA si dichiarano pronti a versare un miliardo di euro; l’Unione Europea, 500 milioni. Esattamente il 10% delle necessità del paese; il resto sarà forse coperto dal Fondo Monetario Internazionale, ma certo le prospettive restano incerte e preoccupanti.
Per il momento, all’interno dell’UE, è la linea tedesca ad essere sconfitta: una linea, appoggiata dall’Italia, che avrebbe preferito un compromesso con la Russia basato su maggiori concessioni, e che avrebbe affidato il controllo dell’Ucraina all’opposizione di Vitali Klitschko, considerato più disponibile al confronto rispetto alla fazione legata a Tymoshenko. È ben noto che la Germania (assieme all’Italia) è tra i principali partner economici di Mosca nel continente e tra i primi al mondo, in particolare per l’acquisto del gas. Una situazione diversa da quella di Regno Unito e Francia, che sono meno legate alla Russia sia per quanto riguarda gli approvvigionamenti energetici che il commercio in generale, e sono infatti più allineate con la posizione americana (come peraltro è già accaduto rispetto alla crisi siriana). È un atteggiamento condiviso da Polonia e Svezia, tradizionalmente interessate agli affari ucraini e molto critiche con l’espansionismo russo.
Non è un caso che i ministri degli Esteri dell’UE non abbiano trovato una linea comune e distintiva di condotta, nel vertice straordinario del 3 marzo, e abbiano deciso di passare la palla ai capi di Stato. Neanche da loro ci sarà da aspettarsi una posizione comune forte dell’Unione Europea: in questa crisi, come in altre prima di oggi (basti ricordare la ex Jugoslavia negli anni Novanta, ancor più vicina al cuore del continente), saranno gli Stati Uniti a decidere la linea politica, mentre le singole capitali sceglieranno come posizionarsi rispetto a Washington, e Bruxelles si occuperà semmai dei futuri negoziati economici. Dato lo stato grave delle finanze ucraine, in questo caso l’accordo di associazione con l’UE, che Yanukovich non volle firmare anche a causa di una grande pressione russa, sarà comunque la prima prova di resistenza per il nuovo stato ucraino.