«C’è il rischio che il Sudest asiatico diventi un centro di reclutamento dell’Isis». Quando il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, ha lanciato l’allarme a maggio dell’anno scorso non poteva sapere che a distanza di otto mesi le sue parole sarebbero diventate profetiche: la capitale dell’Indonesia, Jakarta, il 14 gennaio è stata teatro del più grave attentato subito da quel paese negli ultimi sei anni.
Grave non tanto per il numero delle vittime (secondo i dati ufficiali, due civili e cinque terroristi), quanto per la modalità dell’attacco, organizzato per colpire l’area più turistica della città, e per la rivendicazione da parte dello Stato islamico (ancora da verificare). In aggiunta a quest’ultimo tragico sviluppo, il dispiegamento a dicembre di 150mila uomini, tra soldati e poliziotti, a protezione dei principali luoghi pubblici per timore di attentati, e l’arresto nello stesso mese di nove sospetti che pianificavano un «concerto» di bombe, potrebbero far pensare a un’Indonesia in balia del terrorismo. In realtà questo paese, il più popoloso paese musulmano del mondo, in un decennio ha fatto passi da gigante in tema di sicurezza e da anni si ritiene immune dalle forme più violente di terrorismo sperimentate in passato.
Il Distaccamento 88 della polizia indonesiana, unità speciale addestrata dagli Stati Uniti, è infatti riuscito a indebolire notevolmente Jemaah Islamiyah (Ji), il gruppo terrorista transnazionale che ha sempre avuto come obiettivo quello di edificare uno Stato islamico nel Sudest asiatico. In modo analogo agli attentatori di Parigi, partiti per il jihad in Siria e poi ritornati in patria addestrati, gli uomini di Ji erano diventati esperti di armi e terrorismo combattendo negli anni ’90 in Afghanistan e legandosi successivamente ad Al-Qaida.
Con cellule operanti tra Thailandia, Filippine, Singapore e Malesia, Ji si è fatta conoscere dal mondo intero per gli attentati di Bali del 2002, nei quali morirono 202 persone. Dopo aver arrestato la maggior parte dei responsabili della compagine, l’Indonesia è riuscita anche a uccidere e imprigionare tutti i responsabili degli attentati del 2009 presso due famosi hotel di Jakarta, il Ritz-Carlton e il JW Marriott. Noordin Mohammad Top, nemico pubblico numero uno e ideatore dell’attacco, così come i suoi uomini di Ji, sono stati tutti neutralizzati. Da allora l’antiterrorismo indonesiano si è concentrato sulla cattura di Santoso, l’attuale principale ricercato del paese e leader del Mujahidin Indonesia Timur (Mit), che ha fondato un campo di addestramento terroristico a Poso (nella regione centrale dell’isola di Sulawesi), dove un conflitto tra cristiani e musulmani ha causato la morte di oltre 1.000 persone tra il 1998 e il 2002. Santoso, responsabile di diversi attentati minori negli ultimi anni, ha giurato l’anno scorso fedeltà allo Stato Islamico, così come Abu Bakar Bashir, leader spirituale di Ji condannato nel 2011 a 15 anni di carcere.
Nonostante i successi dell’Indonesia nel campo dell’antiterrorismo, più volte sottolineati dal presidente Joko Widodo ma da attribuire in realtà al suo predecessore Susilo Bambang Yudhoyono, controllare pienamente un paese di oltre 250 milioni di persone sparse su circa 17 mila isole è quasi impossibile. Negli ultimi quattro anni più di 800 indonesiani si sono uniti all’Isis. Molti di loro sono tornati in patria e il 14 gennaio si è visto quale pericolo possono rappresentare per il paese e tutta la regione.
Hugh White, professore di Studi strategici all’Università nazionale australiana, ha dichiarato di recente al Jakarta Globe che «è assurdo pensare che l’Indonesia possa essere conquistata dall’ISIS. Certo, è nel loro interesse destabilizzare il paese». Da questo punto di vista, gli attentati potrebbero cogliere nel segno: l’economia indonesiana, che è cresciuta del 5% nel 2015, non andava così (relativamente) male dal 2009, e un’eventuale paralisi del turismo porterebbe ulteriori danni e instabilità – come si è già visto in Egitto e, più di recente, anche in Turchia.
Il terrorismo, di matrice etnica o islamica, è un male comune a quasi tutto il Sudest asiatico e gli attentati del 14 gennaio hanno messo in stato di allerta anche i partner regionali a più alto rischio: Filippine, Malesia e Thailandia. Manila segue da anni con preoccupazione l’adesione all’ISIS di diversi gruppi terroristi interni, soprattutto Abu Sayyaf: questa formazione, guidata da Isnilon Hapilon che è stato appena proclamato anche leader dello “Stato islamico nelle Filippine” dopo aver giurato fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi nel 2014, cerca l’indipendenza dell’isola meridionale di Mindanao e delle altre formazioni insulari vicine (dove risiede una cospicua popolazione di fede musulmana). Il movimento si finanzia con rapimenti in tutte le Filippine e in Malesia, e ha sviluppato una visione anche più ampia, puntando da 25 anni alla costituzione di uno Stato islamico nel Sudest asiatico – obiettivo questo più simbolico che realista. Per quanto il gruppo sia composto da poche centinaia di membri, l’alleanza con altre formazioni terroriste regionali, come Jemaah Islamiyah, lo rende un pericoloso fattore di instabilità.
Il recente attentato a Jakarta ha smorzato anche l’entusiasmo della Thailandia, dove nel 2015 gli incidenti legati alla violenza separatista sono stati 674, cioè molti ma comunque in calo: per la precisione, il 14% in meno rispetto al 2014, con il 28% in meno di vittime. Le tre province meridionali al confine con la Malesia (Patani, Yala, Narathiwat) hanno sempre rivendicato l’indipendenza ma dal 2001, con l’avvento di gruppi legati al terrorismo islamico, gli scontri con il governo centrale si sono fatti più violenti. Nonostante i colloqui di pace siano in stallo dal 2014, la giunta militare al potere ritiene che la situazione stia migliorando e che le forze dei jihadisti si siano ridotte ad un massimo di 5mila uomini. Benché il terrorismo sia più legato a ragioni etniche che religiose (nel sud del paese i musulmani sono quasi tutti Malay e non Thai), il governo teme che l’emergere dell’ISIS possa spingere i separatisti a stringere un’alleanza con il Califfato per raggiungere più facilmente i suoi scopi.
Le infiltrazioni ideologiche jihadiste, infine, rimangono al centro delle preoccupazioni della Malesia. In questa monarchia il terrorismo islamico armato che Indonesia e Filippine affrontano da decenni non ha mai attecchito. Ma l’estremismo esiste, come anche i contatti diretti con il fenomeno Isis: centinaia di cittadini sono partiti per combattere all’estero nei ranghi del Califfato (che vanta ormai l’esistenza di un intero battaglione composto solamente da miliziani provenienti da Jakarta e Kuala Lumpur, chiamato Katibah Nusantara). A decine sono poi tornati in patria, e per affrontarli il Parlamento ha approvato nel 2015 una controversa legge anti-terrorismo che prevede il ritorno dell’incarcerazione senza processo fino a due anni (facilmente prorogabili). Oltre che a livello locale, la monarchia malese si è mossa anche dal punto di vista internazionale, offrendo il proprio appoggio alla fumosa “alleanza islamica” creata dall’Arabia Saudita per combattere il terrorismo.
Data l’accresciuta rilevanza internazionale del Sudest asiatico rispetto alla questione del terrorismo di matrice islamica, Barack Obama, che ha fatto del Pivot to Asia il marchio di fabbrica della propria politica estera, non potrà che confermare tale scelta nell’ultimo anno da presidenza, prestando più attenzione a questo specifico quadrante asiatico per impedire che l’ISIS vi espanda ulteriormente la propria influenza.