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La seconda rivoluzione tunisina e il rischio di una “guerra civile culturale”

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Come alcuni analisti avevano preannunciato, nel mondo arabo-islamico abbiamo assistito, invece di una “primavera araba”, a una “rinascita islamista”, o un “autunno salafita”. I risultati di questa naturale e insidiosa diffusione di un sentimento politico islamista – in generale – e salafita – in particolare – si sono già visti in Libia, con la demolizione di mausolei storici, prima, e l’assassinio mirato di personalità occidentali o liberali, poi. È in questo ampio contesto di destabilizzazione e diffusione di correnti integraliste che va collocato il recente assassinio, il 6 febbraio scorso a Tunisi, di Chokri Belaid, Segretario del Partito dei Patrioti Democratici Uniti. Un attentato che rischia di far piombare la Tunisia in una seconda “rivoluzione civile”, e questa volta non contro un dittatore.

Belaid, attivista e avvocato, noto per le sue posizioni critiche nei confronti del partito islamista di maggioranza Ennahda, guidava la principale forza d’opposizione, di spiccata tendenza laica. Il suo è l’assassinio più grave avvenuto in Tunisia dalla caduta di Ben Ali (gennaio 2011) e coincide con una delicata fase della transizione tunisina, in cui l’assemblea costituente ha sospeso i lavori e le elezioni devono ancora avvenire, mentre si moltiplicano i segnali d’intolleranza da parte dell’ala radicale islamista.

Nei giorni successivi all’omicidio, gran parte della popolazione tunisina è tornata nelle strade e piazze che sono state teatro della prima rivoluzione contro Ben Ali, questa volta per chiedere la caduta del governo guidato da Ennahda. Sintomatici sono stati gli attacchi da parte dei dimostranti contro diverse sedi del partito islamista, espressione politica della Fratellanza musulmana e ormai avvertito come una minaccia alla tradizionale apertura laica della Tunisia all’Europa e all’Occidente.

Quello che Ennahda si trova oggi ad affrontare è un esame obbligatorio quando si arriva a gestire il potere. È accaduto al partito egiziano della Fratellanza (Giustizia e Sviluppo), a quello omonimo marocchino, e accadrà anche agli altri partiti d’ispirazione islamista al potere.

Questi partiti stanno iniziando a pagare il prezzo delle alleanze con formazioni oltranziste, come quelle salafite, necessarie ieri per allargare il bacino elettorale e che oggi cominciano a chiedere il conto. Lo dimostra il fatto che, dopo l’assassinio di Belaid, il leader salafita di Ansar al-Shari’a (i Sostenitori della Legge islamica) Abu Ayyad ha minacciato il governo tunisino di ritorsioni in caso di sostegno militare alle forze francesi e africane impegnate nel nord del Mali. Il 10 febbraio, nel governatorato di Gafsa, sono stati arrestati cinque giovani, a margine di scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti che protestavano contro la presenza di pattuglie della cosiddetta “polizia salafita” in città. Anche nel governatorato di Sidi Bouzid, i cittadini hanno denunciato la creazione di un apparato salafita di sicurezza parallelo a quello dello Stato. Alcuni rapporti parlano di un “pericoloso complotto” finalizzato a sovvertire il regime, composto da due elementi in particolare: i salafiti e i Trabelsi – cioè la potente famiglia della moglie di Ben Ali (Leila), che per questo obiettivo potrebbero stringere un’alleanza tattica.

Questa situazione di stallo, oltre ad aver scatenato violenti proteste, ha di fatto spinto il paese verso una grave crisi costituzionale. Una delle tre principali forze di maggioranza, il partito Ettakattol, di orientamento social-democratico, ha approvato la decisione del premier, Hamadi Jebali, di sciogliere il governo e formare un esecutivo tecnico in vista di nuove elezioni. Questa proposta è stata subito respinta, oltre che da Ennhada, anche dal presidente della Repubblica Marzouki, provocando una spaccatura interna al movimento islamista. In seguito, la famiglia di Belaid ha accusato Rached Ghannouchi, leader storico di Ennhada, di essere “il mandante dell’esecuzione”.

“La Repubblica di Ghannouchi sull’orlo del fallimento”, titolava lo scorso 11 febbraio il quotidiano algerino Echorouk, evidenziando il reale scontro in atto fra ala liberale e ala islamista nel paese.

Il secondo e più insidioso quesito, a questo punto, riguarda l’immagine del paese, con cui dovranno confrontarsi gli attori internazionali. Una marcata deriva islamista, infatti, rimetterebbe in discussione non soltanto gli equilibri regionali ma soprattutto i rapporti con la sponda nord del Mediterraneo, Italia in primis. E in vista di questo rischio, non si può ignorare il processo di diffusione e rafforzamento del movimento salafita nel paese. Ciò, oltre a provocare un cambiamento culturale in Tunisia, determinerebbe uno scenario profondamente mutato per tutte le compagnie occidentali che hanno investito in Tunisia.

Per ora si tratta di notizie non confermate, ma fonti autorevoli citate dal quotidiano algerino Echorouk confermano che 12.000 combattenti tunisini in Siria sarebbero pronti a tornare in Tunisia, sembra su richiesta del leader salafita-jihadista tunisino Abu Ayyad. Secondo il leader del Fronte Popolare tunisino, Naser al-‘Awni, dietro la crescita del movimento salafita in Tunisia vi sarebbe proprio Ennahda, accusata da Al-‘Awni di aver agevolato anche la partenza di migliaia di tunisini verso la Siria per combattere in collaborazione con i Servizi segreti di Qatar e Arabia Saudita. Si tratta di accuse gravi, lanciate da un oppositore di Ennahda, che ancora non trovano conferma. Tuttavia, ciò che è confermato è che undici tunisini erano coinvolti nel recente attacco all’impianto gasifero di In Amenas, in Algeria: un segnale decisamente allarmante.