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La rimonta di Obama

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È un Barack Obama in recupero quello che martedì sera parlerà all’America da Capitol Hill, pronunciando il discorso sullo Stato dell’Unione di fronte al Congresso riunito in seduta congiunta.

Il recupero di Obama è fotografato dai sondaggi che all’indomani della sconfitta dei democratici alle elezioni di midterm gli assegnavano il 46% di popolarità, mentre ora oscillano fra il 50 e il 53%. Il recupero è dovuto in gran parte ad un ripensamento degli elettori indipendenti, che furono decisivi alle presidenziali del 2008 e potrebbero esserlo ancora alle urne del 2012.

Il cambiamento di atmosfera si deve alle mosse compiute dal presidente dopo lo smacco di midterm, su tre fronti: economia, diritti umani e rimpasto del proprio team.

Sull’economia Obama è andato allo scontro con il proprio partito, obbligandolo a condividere il prolungamento dei tagli fiscali varati da George W. Bush nel 2001 e nel 2003, a dispetto delle promesse fatte agli elettori. L’inversione di marcia di Obama, fino a novembre contrario a estendere i tagli alle fasce più alte di reddito, è servita a testimoniare alla “business community” la volontà di cambiare strategia per accelerare la ripresa economica. Nell’incontro avvenuto alla Blair House a metà dicembre con i venti CEO delle maggiori aziende americane il presidente è andato oltre, chiedendo loro di diventare protagonisti delle scelte-chiave dell’amministrazione sull’economia. Uno di quei venti CEO, Jeffrey Immelt, è stato nominato la scorsa settimana alla guida del nuovo Consiglio su Lavoro e Competizione insediato alla Casa Bianca. Intanto, l’ex top manager di JP Morgan Chase, William Daley, è divenuto capo di gabinetto. Se nei primi due anni Obama ha puntato su pacchetti fiscali, aiuti pubblici e grandi riforme per scongiurare la depressione e far ripartire la crescita, ora guarda dunque alle aziende private per accelerare sul fronte dell’occupazione, che resta il suo tallone d’Achille.

Ciò che accomuna Obama, Immelt, Daley e Gene Sperling, nominato al posto di Larry Summers come capo dei consiglieri economici, è la convinzione che per abbattere una disoccupazione che resta oltre la soglia del 9% bisogna esportare nei mercati dei paesi emergenti, deregolamentare a favore dei privati e stimolare ricerca e sviluppo, a cominciare da hi-tech ed energia. È un approccio che piace alla Camera di Commercio USA, il cui presidente, Thomas Donohue, è stato finora uno degli avversari più duri per Obama. Ed è un approccio che consente all’amministrazione di riallacciare il dialogo con Wall Street, dove molti dei grandi finanziatori del 2008 hanno reagito così male alle riforme su sanità e finanza da chiudere i cordoni della borsa in occasione della campagna di midterm.

L’altro terreno di recupero di Obama è sulla politica estera: il 2011 è iniziato con la Casa Bianca all’offensiva sui diritti umani. Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha pronunciato nell’arco di una settimana due discorsi, sul bisogno di riforme nel mondo arabo e sull’appello alla Cina per la liberazione di Liu Xiaobo. Questa accelerazione ha fatto scrivere all’accademico Fouad Ajami sul Wall Street Journal che “questa amministrazione parla la lingua di George W. Bush”. Obama ci ha messo del suo, incalzando l’ospite Hu Jintao sui diritti umani come mai prima era avvenuto in pubblico, e cavalcando il referendum in Sudan come un momento di svolta per le riforme politiche in Africa. Se a ciò aggiungiamo il pressante impegno di Washington per spingere il presidente della Costa d’Avorio Laurent Gbagdo a lasciare il potere dopo la sconfitta elettorale, e per sostenere le istanze pro-democratiche dei manifestanti in Tunisia, il quadro diventa ancora più chiaro. Si può concludere che siamo di fronte ad una brusca inversione di marcia rispetto alla realpolitik che nel 2009 aveva visto Obama scegliere il basso profilo sulla repressione in Tibet, e scrivere in segreto ad Ali Khamenei per suggerire rapporti diretti fra USA e Iran poco prima della rivolta dell’Onda Verde.

Per i leader repubblicani del Congresso ciò significa trovarsi di fronte ad un Obama centrista, capace di reagire alla strage di Tucson per vestire i panni di unificatore della nazione, respingendo le richieste dei liberal che puntavano invece a sfruttare l’attentato a Gabby Giffords in chiave anti-conservatrice. Senza contare che la scelta di ripristinare i processi militari per i rimanenti 174 sospetti terroristi detenuti nel carcere di Guantanamo è un premio alle posizioni della intelligence community che finora il ministro della Giustizia Eric Holder aveva dimostrato di non voler ascoltare.

È in tale cornice che Barack Obama si accinge a sfruttare il discorso sullo Stato dell’Unione per incalzare i repubblicani sul loro terreno, sfidandoli a collaborare per “costruire il futuro della nazione”. Finora il Grand Old Party ha perseguito una strategia opposta, puntando sulla repulsione della riforma della sanità per schiacciare Obama sulle politiche liberal perseguite nella prima metà del mandato. Ma ora serve ben altro.