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La riforma dell’istruzione in Turchia: regalo agli islamisti o problema di equità?

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Il 30 marzo scorso il parlamento turco ha approvato a maggioranza (con 295 voti su 550) un’importante riforma dell’istruzione, già diventata legge dopo l’approvazione del presidente Gül. Una riforma che è stata presentata dal governo come un passo in avanti verso l’adeguamento della Turchia – paese in cui i giovani rappresentano circa metà della popolazione complessiva – agli standard educativi del mondo sviluppato, in particolare con il passaggio degli anni di istruzione obbligatoria da otto a dodici. Tuttavia, in patria e all’estero vi sono state aspre critiche al provvedimento, accusato di essere un passo verso l’islamizzazione dell’istruzione e delle menti delle giovani generazioni.

Il principale punto contestato è proprio la modifica del curriculum educativo: in particolare, vengono separati in due cicli gli otto anni di istruzione di base che fino ad ora dovevano essere svolti nello stesso istituto. Questo permetterà di passare già dal quinto anno a scuole vocazionali, come gli istituti professionali, ma anche le scuole religiose imam hatip (in cui ha studiato buona parte degli esponenti di punta dell’attuale governo). Si tratta di scuole create dal regime kemalista appositamente per la formazione di predicatori sotto il controllo dello stato, che tuttavia sono gradualmente diventate un sistema di istruzione religiosa parallelo a quello laico, raccogliendo fino a più del 10% del totale degli studenti.

La legge in vigore fino ad oggi era stata redatta nel 1997, in seguito alla deposizione del governo islamista di Necmettin Erbakan voluta dall’esercito. In base ad essa, era divenuto impossibile frequentare istituti imam hatip fino al nono anno di scuola, con la conseguenza di un brusco crollo delle iscrizioni nelle scuole religiose. Con la nuova riforma, unita al sostegno dell’attuale governo, ci si può quindi aspettare un nuovo boom di iscrizioni, ovviamente non gradito dalle forze laiche in Turchia.

Ma ci sono anche altri aspetti della riforma che sono oggetto di feroci critiche. Uno di questi è rappresentato dalla possibilità di istruire a casa gli studenti (la pratica nota come homeschooling nel mondo anglosassone) già dopo la fine del primo ciclo di quattro anni. A questo proposito, gli oppositori della riforma temono che essa permetta un massiccio ritiro da scuola delle allieve di sesso femminile da parte dei genitori più conservatori, che potrebbero così segregarle in casa fin dagli undici anni di età. Inoltre, ci sono preoccupazioni relative all’introduzione di corsi facoltativi (in aggiunta a quanto già previsto dalle precedenti normative) sul Corano e sulla vita del Profeta.

Il governo difende la sua riforma presentandola anzitutto – in un modo molto simile alle tesi dei sostenitori dell’istruzione religiosa e dell’homeschooling negli USA e in molti paesi europei – come un ampliamento della scelta per i genitori. La nuova legge è presentata anche come un ripristino delle libertà democratiche, visto che la precedente normativa era il frutto di un atto autoritario compiuto dall’esercito.

Gli oppositori della riforma non si limitano a mettere in rilievo i rischi di islamizzazione da essi ravvisati. Sotto accusa è anche la fretta con cui l’esecutivo ha presentato e posto in votazione in parlamento la legge, limitando il dibattito. Fin dall’inizio, la proposta aveva revocato reazioni assai negative tra i sindacati degli insegnanti (che hanno inscenato marce di protesta verso il parlamento disperse con gas lacrimogeni), ma anche nel partito di opposizione kemalista CHP (al contrario degli ultra-nazionalisti dell’MHP, che hanno invece sostenuto la legge). Si sono registrati anche tentativi di boicottare l’iter parlamentare della proposta, che sono giunti fino allo scontro fisico tra parlamentari in commissione istruzione.

Volendo tracciare un bilancio complessivo, è probabile che abbia ragione chi vede nella nuova legge un incentivo per l’istruzione religiosa (aspetto che non è negato, peraltro, nemmeno dagli esponenti del governo). È tuttavia esagerato presentare la riforma come un passo verso un regime di tipo khomeinista. La vicenda somiglia molto più ai dibattiti tra laici e filo-religiosi in atto in buona parte del mondo occidentale, su quali siano i giusti confini tra laicità dello stato e libertà di espressione religiosa. Sotto questo punto di vista, non si può valutare la riforma con un metro diverso da quello usato per la promozione dell’homeschooling e delle tesi dell’intelligent design negli USA, o per i finanziamenti alle scuole religiose e le battaglie per la presenza dei crocifissi nelle scuole pubbliche in Europa.

Va invece rimarcato che, come spesso accade, la religione funge da catalizzatore che però distoglie l’attenzione da altre questioni di notevole importanza. Primo fra tutti, in questo caso, la possibilità di accedere alle scuole professionali già dopo i quattro anni del ciclo elementare, e altri aspetti della riforma che potrebbero rendere meno equo – cioè ancora meno accessibile per chi abbia meno mezzi o per le minoranze linguistiche – il già competitivo sistema scolastico turco.