Dopo varie guerre inutili e anzi controproducenti, l’America e i suoi alleati si rendono lentamente conto che la sfida lanciata dall’ISIS ci impone un’altra guerra, ineludibile questa volta. Ma la presa di coscienza è, oltre che lenta, parziale e riluttante. Il grido di allarme lanciato dal sovrano dell’Arabia Saudita (il paese che ha tanto contribuito al rafforzamento dei movimenti jihadisti sunniti!) dovrebbe fare riflettere. Qualcuno ha osservato che il mondo si comporta come se non si fosse verificato il maggior rivolgimento in Medio Oriente dagli accordi Sykes-Picot di un secolo fa (P. Cockburn, “ISIS consolidates”, in London Review of Books, agosto 2014).
Le opinioni pubbliche e i parlamenti sono disposti ad avallare l’uso delle forze armate tutt’al più per interventi “umanitari”: per salvare dal massacro minoranze religiose come gli Yazidi e i cristiani; ma per lo più preferiscono limitarsi – è il caso dell’Italia – a forniture di armi ad attori locali anti-ISIS, a cominciare dai curdi; e ampi settori non vorrebbero andare oltre l’invio di beni di prima necessità per lenire le sofferenze dei rifugiati e sfollati.
La riluttanza a lasciarsi coinvolgere in un nuovo Afghanistan (un tempo si sarebbe detto “un nuovo Vietnam”) è più che comprensibile, visti i risultati delle precedenti guerre “sbagliate”, dall’Iraq nel 2003 alla Libia nel 2011. Ma proprio quei coinvolgimenti arbitrari degli Stati Uniti e della NATO in conflitti locali hanno ingrossato un fenomeno – il jihadismo – che già minacciava l’Occidente ma che forse con una politica oculata avrebbe potuto essere contenuto, e quindi combattuto dai governi della regione.
Purtroppo le cose sono andate diversamente, e ora dobbiamo far fronte alle conseguenze. Gli interventi in Iraq e Libia, così come la cronicizzazione di quello in Afghanistan (inizialmente giustificato), hanno risvegliato in ampi strati del mondo islamico la sindrome dei “nuovi Crociati”, suscitando una voglia di anti-crociata. Ma ciò che più deve allarmarci è il fatto che questa ideologia jihadista ha contagiato migliaia di giovani musulmani cresciuti nei nostri paesi, di cui posseggono anche la cittadinanza. Dopo un tirocinio in Siria, è facile prevedere che molti verranno re-infiltrati in patria per proseguire la jihad all’interno delle nostre società.
A questo punto non basta riconoscere che l’ISIS è un pericolo serio, di cui non ci si può disinteressare. Occorre analizzare la portata della minaccia, e individuare il tipo di reazione necessario per affrontarla efficacemente, al di là delle condanne e degli appelli e di gesti di buona volontà, intesi solo a controbattere le accuse di passività.
Valutare la minaccia
Chi vede la pericolosità dell’ISIS solo nell’estrema intolleranza religiosa e nella crudeltà ostentata a scopo intimidatorio si limita ad appoggiare un’azione atta a fermare la sua avanzata verso la capitale curda, Erbil e verso il monte Sinjar su cui si erano rifugiati migliaia di Yazidi, e ora ad impedire la caduta di Amerli e il massacro dei suoi abitanti turkmeni. È stato questo il senso dei recenti interventi militari americani.
Accanto a queste misure immediate, l’America ha – giustamente – imposto la sostituzione di Maliki, responsabile della radicalizzazione dei sunniti, e ha proceduto a rafforzare la milizia curda e l’esercito iracheno, che avevano entrambi mostrato preoccupanti sintomi di cedimento. Obiettivo: contenere l’avanzata dei guerriglieri dello Stato Islamico verso Baghdad, ma non certo espellerli da Mosul e dal resto dell’Iraq settentrionale, poiché ciò richiederebbe boots on the ground, una spedizione terrestre.
Una simile strategia sottintende che la red line, o casus belli, sia la caduta di Baghdad, il pericolo di vita per chi si trova ancora nell’ambasciata USA, l’ignominia della sua evacuazione come a Saigon quaranta anni fa. E che uno stallo, cioè una tripartizione di fatto, sia “il male minore”. La trita raffigurazione dell’Iraq come costruzione artificiale del colonialismo britannico va in questo senso.
Ai sostenitori di questa linea si dovrebbe chiedere se raccomanderebbero al presidente ucraino Petro Poroshenko di riconoscere che uno stato separatista intorno a Donetsk e Lugansk è il male minore rispetto a una continuazione della guerra civile e del conflitto con la Russia; o se cercherebbero di convincere Netanyahu che i cronici ma imprecisi tiri di mortaio di Hamas in territorio israeliano e le occasionali incursioni attraverso i tunnel da Gaza sono un inconveniente in fondo tollerabile. Il punto analitico centrale è proprio questo: se le minacce che gravano sull’Ucraina e Israele non vanno banalizzate, assai più grave per i paesi vicini e per la nostra stessa sicurezza è il pericolo emanante dal consolidarsi di una roccaforte jihadista su un vasto territorio nel nord dell’Iraq e della Siria e fino ai dintorni di Baghdad e alla frontiera giordana. Se il pericolo è quello di una destabilizzazione della Giordania e del Libano, oltre che dell’Iraq meridionale, e di un futuro focolaio di azioni terroristiche rivolte contro gli stati occidentali, Israele e le monarchie del golfo (al confronto il regime del mullah Mohammed Omar che proteggeva Osama Bin Laden, rendendo necessaria una guerra vera e propria, costituiva una minaccia modesta), allora l’ipotesi di roll-back, di guerra per il recupero dei territori perduti, non può essere un tabù.
Questa valutazione della pericolosità dell’ISIS è giudicata eccessivamente allarmistica da diversi esperti, fra cui gli autori di due acuti saggi su queste stesse pagine (Ted Carpenter e Teun Van Dongen). Essi sostengono che dobbiamo adattarci al consolidamento dello Stato Islamico, il quale risponde essenzialmente ad una esigenza di autonomia di tutti i sunniti di Iraq e Siria, e si rivelerà in fin dei conti foriero di stabilità; sono fiduciosi che lo Stato Islamico crollerà da solo perché la popolazione si ribellerà contro le brutalità dei tagliagole, e i baathisti e le tribù verranno alle mani con i jihadisti, la cui forza è stata sopravvalutata; ammoniscono che l’Occidente deve guardarsi dall’intervenire (anzi, quanto deciso da Barack Obama è già troppo). Analogamente sdrammatizzanti i recenti articoli di J. Mathews nella New York Review of Books (14 agosto) e S. Simon in Foreign Affairs (26 agosto).
Se il futuro darà loro ragione, tanto meglio. I precedenti storici di rivoluzionari arrivati al potere con metodi brutali sono difficilmente comparabili, e comunque non suggeriscono una risposta univoca: il Terrore di Robespierre ha presto suscitato la reazione termidoriana, ma il regime dei bolscevichi e lo stalinismo sono durati decenni. Un termine di paragone più vicino può essere offerto dal regime dei talebani, che malgrado il suo carattere oppressivo e retrogrado aveva mantenuto il potere fino all’invasione americana, è poi riuscito a reinsediarsi in ampie zone dell’Afghanistan e sembra avere buone probabilità di imporsi in tutto il paese dopo il ritiro degli USA. Fattori di successo dei guerriglieri fondamentalisti pashtun sono da un lato la paura di feroci punizioni, dall’altro il rispetto per la loro abnegazione come combattenti o una rassegnata accettazione come coerenti difensori dell’indipendenza nazionale e come male minore rispetto a un governo centrale corrotto e controllato dallo straniero.
Analoghi fattori fanno la forza dell’ISIS, che inoltre ha saputo stabilire nelle zone conquistate una amministrazione funzionante. I suoi successi bellici si spiegano con una efficace combinazione dei metodi spietati della guerriglia, arricchiti dallo spirito di sacrificio dei kamikaze, con una organizzazione militare e capacità tattica superiore a quella degli altri movimenti ribelli siriani (e a quella dei talebani). La tendenza naturale ad allinearsi con i vincitori e la speranza che assicurino un periodo di pace hanno fatto il resto.
Per queste ragioni la prospettiva di una reazione immunitaria delle regioni sunnite che debelli dall’interno il morbo jihadista e di una conseguente normalizzazione dell’ISIS come una delle tre regioni autonome dell’Iraq, alla pari con il Kurdistan e senza velleità di espansione o sovversione al di là delle zone arabo-sunnite della Mesopotamia, appare colorata di wishful thinking. E forse suggerita dalla constatazione che qualsiasi intervento per abbattere l’ISIS dall’esterno rischia di rivelarsi controproducente.
Una strategia di roll-back
In effetti, le ragioni di chi si oppone ad un massiccio invio di truppe sono senz’altro valide: contrarietà delle opinioni pubbliche, stanche delle guerre “sbagliate”; impegni presi da Obama di fronte all’elettorato; esperienze deludenti fatte con la guerra “asimmetrica” durante l’occupazione dell’Afghanistan e dello stesso Iraq; prevedibile ulteriore ingrossamento delle file dei jihadisti in tutto il mondo musulmano come reazione all’aggressività dell’Occidente.
Accantonando perciò, almeno per ora, questo scenario dei boots on the ground – che forse si rivelerà ineludibile più avanti – occorre attivare con decisione tutti gli altri strumenti di una strategia di roll-back.
Al primo posto, naturalmente, massicci aiuti militari al governo di Baghdad e a quello autonomo di Erbil, assicurando una copertura aerea proporzionale alla combattività delle forze di terra locali: il modello è quello della proxy war croata con appoggio aereo americano che ha funzionato contro i serbi di Bosnia nel 1995.
Altrettanto necessaria è una energica azione di dissuasione contro l’invio di armi e fondi all’ISIS e ad altri gruppi islamisti che combattono in Siria da parte di Stati e privati arabo-sunniti, soprattutto nella regione del Golfo (in passato anche la Turchia ha appoggiato i ribelli fondamentalisti, ISIS inclusa). È inconcepibile che lo si sia sinora tollerato, se non incoraggiato, sotto la spinta delle lobby del petrolio, mentre non si è esitato ad adottare sanzioni contro la Russia (altro fornitore di idrocarburi), che di certo comportano un prezzo economico e politico assai più alto.
Arabia Saudita e Turchia si rendono ora conto dell’errore commesso, e chiudono la stalla quando i buoi sono scappati. L’ISIS si autofinanzia ormai con tassazione, estorsioni, riscatti di ostaggi, esportazione di petrolio; e con la presa di Mosul si è impadronito di un immenso stock di armi dell’esercito irakeno di provenienza americana. Riyad e Ankara devono essere messe di fronte alle loro responsabilità e impegnarsi non solo a mobilitare i propri servizi di intelligence per impedire a gruppi non statali di continuare a fornire aiuti e reclute all’ISIS, ma anche a dare il loro contributo al rafforzamento delle forze armate di Baghdad e cercare di staccare dal nocciolo duro jihadista quei sunniti che vi si erano avvicinati solo per reazione alla politica discriminatoria e repressiva di Al-Maliki.
L’arresto del flusso che alimenta i guerriglieri del “califfo” deve portare logicamente ad una politica di sostegno, di fatto, al regime di Damasco, quindi ad una svolta a 180 gradi. Può risultare imbarazzante ma non si può negare. Washington, che appena un anno fa è stata a un passo da una azione militare a favore dei ribelli, sta ora studiando l’opzione di bombardare le forze dell’ISIS in Siria. Naturalmente smentisce che ciò significhi una tacita intesa con il regime alawita, ma intanto Al-Assad ha dato il suo nullaosta.
Favorire la fine di quella guerra civile, in altre parole il consolidamento del regime di Damasco (indipendentemente dalla condanna morale della brutalità della repressione), temperato da una apertura alle forze di opposizione non estremiste, è indispensabile non solo al fine di indebolire l’ISIS in Iraq, e non solo per metter fine alla tragedia dei milioni di rifugiati e sfollati, ma anche perché quel conflitto è un brodo di coltura di germi jihadisti, una palestra per terroristi di ogni provenienza, anche nostrani.
L’altro fronte sul quale va condotta la lotta contro il cancro jihadista è, appunto, quello interno. La propaganda estremista nelle scuole coraniche, nelle moschee e su internet, il reclutamento, la partenza verso il fronte siriano e verso campi di addestramento vanno affrontati con energiche misure di prevenzione. Misure che devono rispettare i fondamenti dello stato di diritto, senza però che il garantismo arrivi a svuotare la prevenzione e consenta solo la punizione dei reati commessi, dopo tre gradi di giudizio. Se la lotta contro la mafia e contro le Brigate Rosse ha richiesto norme speciali e una massiccia attività di intelligence, altrettanto vale – a maggior ragione – per il terrorismo internazionale.
La tolleranza zero verso chi predica o pratica il jihadismo, pur senza macchiarsi di crimini terroristici sul nostro territorio, è un tema controverso. Chi propende per un atteggiamento comprensivo verso i giovani concittadini mussulmani reduci dall’avventura siriana li assimila ai giovani di sinistra che negli anni trenta andarono in Spagna ad arruolarsi nelle Brigate Internazionali anti-franchiste, se non a Garibaldi in Sudamerica e Santorre di Santarosa in Grecia. In effetti, non si può disconoscere loro una motivazione religiosa o ideale, né dare per scontato che al ritorno saranno dei terroristi “dormienti”. D’altro canto le società che li ospitano hanno il diritto e il dovere di proteggersi da infiltrazioni terroristiche, e questo dovere prevale sul diritto di libera espressione dei “cattivi maestri” e sul diritto dei giovani estremisti di vivere un’esperienza di lotta inebriante in Medio Oriente, addestrandosi con l’occasione alla guerriglia urbana.
Se l’America mette allo studio reazioni più energiche ma ancora esita, l’Europa per ora si accontenta di deplorazioni e palliativi, trincerandosi dietro la molteplicità dei problemi cui deve far fronte a casa propria e nelle immediate vicinanze, dalla deflazione all’immigrazione illegale via mare, dal caos in Libia al conflitto in Ucraina. Se fa la voce grossa, se aumenta la posta nel costoso gioco delle sanzioni, se pensa a misure di dissuasione militari, è contro la Russia, come già contro l’Iran. Una visione miope dei nostri interessi economici e di sicurezza.