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La politica estera di Obama: la pazienza come virtù dei forti

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Il discorso che Barack Obama ha pronunciato a West Point – appuntamento annuale sempre molto atteso – era rivolto ai soldati americani e all’opinione pubblica interna; ma contiene elementi interessanti anche per il resto del mondo. Il messaggio di fondo è che l’amministrazione continua a perseguire un refocusing delle risorse – in parte verso obiettivi di rinnovamento interno e in parte con la radicale riduzione degli impegni nelle due guerre ereditate da George W. Bush in Iraq e Afghanistan.

Obama ha ribadito le basi concettuali di questo riorientamento delle priorità: l’ascesa graduale di alcune potenze emergenti (attori statuali ma nuovi per l’assetto internazionale) e il peso in aumento di vari attori non statuali (perfino singoli individui, e naturalmente gruppi estremisti e terroristici). Questa combinazione cambia la mappa del potere globale, a cui l’America deve adattarsi per continuare a fare da paese-guida in forme aggiornate.

Su tale sfondo, il presidente ha contestato le tesi del “declino americano”: il paese resta decisivo in termini di vitalità economica (nonostante l’impatto della crisi) e (novità recente) di indipendenza energetica, in termini di superiorità militare, e come grande aggregatore di alleanze. Al tempo stesso, la potenza americana è posta davvero al servizio degli interessi nazionali quando consente anzitutto di collaborare con partner e alleati in uno sforzo condiviso di risoluzione dei problemi – lasciando alla forza militare un ruolo di “ultimo ricorso”. Riecheggia chiaramente, in questa affermazione, l’approccio che Obama ha adottato senza eccezioni nelle varie crisi acute che ha dovuto gestire nei suoi cinque anni e mezzo come comandante in capo.

Nel discorso di West Point del 28 maggio si è identificata la singola minaccia più grave alla sicurezza degli Stati Uniti nel terrorismo internazionale, precisando che si tratta di un tipo di fenomeno terroristico in parte nuovo: molto decentrato e quasi frammentato ma pur sempre imprevedibile e potenzialmente letale. Una minaccia “diffusa” che richiede soprattutto maggiore collaborazione con i paesi stessi in cui i gruppi operano, ormai anche in regioni che tempo fa erano considerate fuori dalle zone più calde, come l’Asia meridionale e il Sahel.

Anche al caso siriano, con la sua enorme tragedia umanitaria oltre che i suoi gravi rischi geopolitici, si vorrebbe applicare proprio questo approccio: una sorta di divisione dei compiti con i paesi più vicini o più coinvolti, partendo dalla consapevolezza che non esiste una soluzione rapida e lineare, neppure se si impiegasse la forza militare in modo massiccio. Un criterio specifico indicato dal presidente è infatti che qualsiasi forma di intervento non deve creare più nuovi nemici di quanti ne sconfigge sul campo di battaglia – una riflessione in effetti condivisibile quando si tratta di movimenti radicali che si nutrono spesso di risentimento e vittimismo. Certo, sono più che comprensibili le esitazioni di fronte ad ogni ipotesi di intervento diretto sul terreno (le hanno esposte apertamente per primi proprio i generali americani), ma è anche vero che l’efficacia della prudente strategia obamiana sembra trovare un limite invalicabile nel calderone siriano: gli unici risultati tangibili sono stati finora il quasi-disarmo dell’arsenale chimico di Assad e il fatto stesso di non aver lanciato una nuova operazione militare dagli esiti imprevedibili e dai costi elevati (un successo politico solo nell’ottica del do no harm).

Ormai si sono insinuati dei dubbi sull’effetto di queste scelte per la credibilità americana anche tra gli stessi membri dell’amministrazione; per ora tuttavia l’indicazione che viene da West Point è che si terrà la barra diritta sulla cautela e sul paziente lavorio multilaterale, anche su altri dossier delicatissimi e aperti come l’Ucraina e l’Iran. In sostanza, si preferisce ancora un passo lento e il rischio della paralisi, rispetto a decisioni affrettate e al rischio dell’eccesso di zelo.

La visione di Obama si è per certi versi fatta più chiara dal suo primo insediamento nel 2009, visto l’orgoglio con cui il presidente ha rivendicato le sue varie decisioni di non-intervento militare. Anche la promozione dei tradizionali valori americani – dai diritti umani alla democrazia, al libero mercato – viene meglio perseguita con azioni indirette di sostegno, apparentemente di basso profilo, e passa comunque anzitutto per ciò che il paese incarna – quel concetto del leading by example che diventa così spinoso quando si parla di sorveglianza elettronica dei cittadini americani, come il presidente ha voluto ricordare.

Sul versante proattivo, intanto, gli Stati Uniti si propongono in primo luogo come catalizzatori di coalizioni o iniziative multilaterali specifiche, a sostegno di interessi nazionali la cui priorità va però precisata di volta in volta – dunque con una certa carenza di singoli focus prestabiliti, per riprendere proprio il termine usato da Obama. Non è una linea di politica estera facile da comunicare, mancando di un evidente centro di gravità. Il problema per l’amministrazione è stato infatti convincere i suoi critici interni che questo metodo tutela realmente gli interessi americani, gli alleati di Washington che la superpotenza è ancora affidabile, e i suoi avversari che l’America è disposta a punire i comportamenti che violano le regole e le “linee rosse” (scritte e non scritte). Un’agenda di lavoro incompiuta, che richiederà molti sforzi nei due anni e mezzo restanti della presidenza Obama.