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La Palestina alle Nazioni Unite tra diritto e politica

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Dopo lunghi giorni di incertezze circa la scelta procedurale per ottenere un upgrade dell’attuale status di “Ente osservatore” all’ONU, l’Autorità nazionale palestinese (ANP) ha optato per l’ammissione della Palestina all’Organizzazione in qualità di Stato membro a pieno titolo. È la strada più ambiziosa e difficile, se non attualmente impossibile. Qualche riflessione sugli aspetti giuridico-procedurali della via intrapresa e di quella alternativa, finora accantonata, può aiutare a cogliere il senso politico della mossa palestinese.

Il punto determinante dell’opzione che è stata scelta – l’ammissione come nuovo Stato membro – consiste nel fatto che, prima di arrivare ad una delibera dell’Assemblea generale, da approvarsi a maggioranza di due terzi degli Stati (almeno 130), è richiesta una  raccomandazione favorevole del Consiglio di Sicurezza. Ciò deve avvenire secondo la procedura di voto “aggravata”, nel senso che opererebbe la possibilità di esercizio del c.d. diritto di veto anche di uno solo dei membri permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti). Poiché Washington aveva preannunciato da tempo la propria resistenza in Consiglio rispetto all’eventuale richiesta palestinese di ammissione, tutto lasciava intendere che la delegazione palestinese avrebbe aggirato il veto americano abbassando il tiro: si sarebbe dunque perseguita direttamente in Assemblea generale una risoluzione che modificasse la rappresentanza all’ONU della Palestina, da Ente avente lo status di osservatore permanente (OLP) a Stato non membro osservatore permanente. Una simile delibera, infatti, potrebbe essere adottata dall’Assemblea generale in piena autonomia rispetto al Consiglio di Sicurezza e, quindi, al riparo da ogni eventuale veto. Questa seconda strada resterebbe comunque esperibile nel probabile caso in cui la prima venisse sbarrata dal veto americano e, quindi, merita considerare quali vantaggi essa comporterebbe per il soggetto palestinese rispetto allo status attuale.

Va innanzitutto ricordato come l’OLP avesse ottenuto già dal 1974 lo status di Ente osservatore permanente nell’Assemblea generale: con ciò aveva assunto il diritto di prendere la parola e partecipare ai dibattiti, senza, peraltro, potere partecipare alle votazioni. Dal 1998, l’Assemblea generale ha poi accordato all’OLP anche il potere, di non poco conto sotto il profilo della diplomazia multilaterale, di sottoporre proposte di risoluzione su questioni di interesse specifico per l’osservatore.

Con il passaggio da Ente osservatore permanente a Stato osservatore permanente, quindi, cambierebbe ben poco sotto il profilo dei poteri della delegazione palestinese all’interno dell’Assemblea generale. Resterebbe, infatti, la mancanza di diritto al voto, prerogativa caratteristica degli Stati membri. Ad oggi, peraltro, l’unico Stato non membro avente lo status di osservatore permanente è la Santa Sede, le cui caratteristiche giuridico-politiche sono ben diverse da quelle della Palestina. D’altro canto, diverrebbe significativo il riconoscimento da parte degli oltre due terzi degli Stati membri dell’ONU della qualità di Stato dell’Ente palestinese, anche se solo in qualità di osservatore permanente. In concreto, poi, questo potrebbe consentire alla “nuova” Palestina l’accesso alla giurisdizione della Corte internazionale di giustizia, competente solo nelle controversie tra Stati, su di un piano di parità rispetto agli stessi Stati membri. Analogamente, un upgrade di questo tipo e la conseguente prassi quotidiana di partecipazione ai lavori degli organi ONU in qualità di Stato (anche se solo osservatore) potrebbe costituire un importante elemento sotto un altro profilo: l’efficacia della dichiarazione depositata presso la Corte penale internazionale nel 2009 dall’ANP con cui si riconosce la giurisdizione della Corte per eventuali crimini internazionali commessi sul territorio palestinese a partire dal 1 luglio 2002. Ciò comprende, quindi, i presunti crimini commessi dalle forze israeliane durante l’Operazione Piombo Fuso nel 2008; sul punto, assai controverso, dovrà pronunciarsi a breve la stessa Corte dell’Aja.

Dato questo quadro, è evidente che le finalità principali di questa azione diplomatica dai connotati giuridico-procedurali siano di natura politica, nel senso di evidenziare l’isolamento degli Stati Uniti e di Israele spingendo al negoziato sull’intera questione mediorientale in condizioni di maggiore forza.

Non va, peraltro, sottovalutato il fatto che, se anche non intervenisse il veto americano e la Palestina venisse ammessa a pieno titolo come Stato membro dell’ONU, questo non risolverebbe il problema della effettività come requisito fondamentale della sovranità statale in Palestina in base al diritto internazionale. Infatti, l’ANP esercita un potere effettivo solo su una parte del territorio palestinese, la Cisgiordania, e sulla parte del popolo palestinese ivi stanziato, costituito da 2,3 milioni di abitanti. Un milione e mezzo di abitanti vive invece sotto il controllo di Hamas nei territori di Gaza, e questo rende molto debole la posizione palestinese rispetto al requisito dell’effettività del potere di un governo unitario e indipendente su di un popolo stanziato su di un territorio unificato politicamente.

Si può valutare se un riconoscimento formale da parte dell’ONU dello Stato palestinese, anche solo come Stato osservatore, non potrebbe rafforzare al suo interno e nei riguardi degli Stati terzi il processo di consolidamento dello Stato palestinese in termini unitari. Va considerato che già nel dicembre 1988, un mese dopo la proclamazione di indipendenza della Palestina da parte di Yasser Arafat, l’Assemblea generale dell’ONU aveva dato riconoscimento a tale proclamazione, salvo lasciare all’OLP la rappresentanza palestinese in qualità di Ente osservatore (ris. 43/177). Ciò ha sicuramente contribuito a promuovere il riconoscimento dello Stato palestinese da parte di 126 Stati e a permettere all’OLP stesso e l’ANP di concludere numerosi trattati bilaterali; la prassi ha però rilevato, oltre alla mancanza di unità di governo su popolo e territorio palestinesi, la mancata accettazione della Palestina, nelle sue diverse configurazioni rappresentative, nei trattati multilaterali che costituiscono l’impalcatura delle relazioni giuridico-politiche internazionali tra Stati.

Se, invece, il processo sostanziale di formazione dello Stato sovrano palestinese dovesse consolidarsi in termini unitari, permanendo l’impossibilità di ammissione allo status di membro dell’ONU a pieno titolo (sempre a causa del veto americano), questo non inciderebbe, di per sé, sulla sovranità statale palestinese. Così come non incise su quella italiana, finlandese e di quegli altri Stati che avendo fatto richiesta di ammissione all’ONU nel 1947, rimasero ostaggio dei veti incrociati dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza fino al 1955.