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La nuova politica del cibo e la società americana: i food desert

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La politica del cibo è destinata ad essere sempre più influente negli Stati Uniti. Ad imporsi è la tendenza ad allontanarsi dalla cultura dell’agricoltura industriale e della distribuzione di massa. Il successo di quella che è stata definita come l’alternative food culture – ogni sorta di variante del neo-tradizionalismo alimentare: dal locavorisme, versione nordamericana del nostro chilometro zero, fino al culto delle produzioni organic (biologiche) – sta a testimoniarlo. Di recente la politica del cibo ha cessato di essere presente solo nell’agenda della classe media con i suoi umori salutisti ed ambientalisti, varcando infine la soglia della questione sociale che, in America, è inevitabilmente questione razziale e questione urbana. Con la nozione di food desert, il paese ha trovato una nuova immaginifica – ma non immaginaria – rappresentazione del divario incolmabile fra suburbio bianco e middle class e inner city abitata in prevalenza dalle minoranze, a partire da quella afro-americana.

Il termine è di importazione britannica. Nei primi anni Novanta, un residente di un quartiere di edilizia pubblica di Glasgow, richiesto di commentare le opportunità di approvvigionamento alimentare nell’area, la definiva sconsolato come un food desert. Da allora quando si parla di food desert, ricercatori e giornalisti intendono un’area nella quale è difficile avere accesso a cibi freschi, nutrienti e di qualità e dove, viceversa, è più facile avere accesso a cibi altamente “artificiali” (processed food, dicono gli americani), poco nutrienti e tendenzialmente dannosi per la salute. Dagli anni 2000 la definizione è stata usata per descrivere l’esito di un processo che in America era iniziato all’incirca cinquant’anni prima. Sono infatti decenni che le grandi catene distributive hanno voltato le spalle alle città lanciandosi alla rincorsa dei loro clienti ideali – vale a dire le famiglie della middle class bianca – nel frattempo rifugiatesi nel suburbio. Diventando iper-mercati e poi super-center, i punti vendita delle grandi catene non hanno fatto altro che diventare sempre più inevitabilmente suburbani ed inadatti alle città. Qui molto spesso rimaneva invece un’offerta scarsa e di cattiva qualità, fatta di fast food alternati a pochi negozi indipendenti che di certo non corrispondono al nostalgico ideale italiano della bottega di quartiere: liquor store e convenience store – che diventano bodegas nei quartieri dei latinos. Si tratta di piccoli empori caotici e trasandati, nei quali si può trovare dalla candeggina alle merendine, ma dove è molto difficile trovare una mela o una testa di lattuga. È qui che molte famiglie a basso reddito delle inner city fanno la spesa ogni giorno, specie se non hanno la macchina.

Un decennio di ricerche ha dimostrato che è molto più facile trovare un supermercato in un suburbio bianco che in una inner city in prevalenza afro-americana o ispanica dove, di converso, è molto più probabile trovare un fast food rispetto ad un’area suburbana. Questi sono numeri che nessuno discute: ad essere in discussione sono invece le implicazioni sulla diffusione delle epidemie di obesità, diabete e malattie cardio-vascolari. Le ricerche sui food desert hanno inteso dimostrare l’esistenza di un nesso causale fra questi, le abitudini alimentari di chi vi risiede e l’incidenza delle epidemie citate. Secondo una ricerca del 2006, a Chicago più di mezzo milione di persone viveva in quartieri privi di supermercati, mentre altri quattrocentomila risiedevano invece in aree in cui l’equilibrio fra supermercati e fast food era nettamente a favore dei secondi. In queste aree, dimostravano i ricercatori, l’aspettativa di vita della popolazione era penalizzata dall’assenza di una rete distributiva dignitosa: si moriva di più di malattie cardio-vascolari, per esempio, non semplicemente perché si apparteneva a gruppi più esposti al rischio, ma anche perché si viveva in un food desert.

Sulla scia del successo mediatico del nuovo immaginario dei food desert, il dipartimento dell’Agricoltura commissionava nel 2008 una ricerca nazionale sul tema i cui risultati, quantomeno dal punto di vista quantitativo, sembravano ridimensionarne la portata. Critici e scettici ne hanno poi messo in discussione il ruolo nella determinazione delle abitudini dietetiche e quindi nella diffusione delle epidemie. “La gente non fa necessariamente la spesa nel quartiere in cui vive come non è detto che utilizzerebbe occasioni di approvvigionamento migliori qualora ci fossero”: sono queste le argomentazioni più diffuse fra chi non crede al valore euristico dei food desert. Nonostante i critici, da qualche tempo esiste un sito web – promosso dallo stesso dipartimento dell’Agricoltura – dove si possono localizzare i food desert, mentre rapporti, reportage e progetti di ricerca sul tema continuano a moltiplicarsi. Ma soprattutto, il risultato più importante dell’ascesa mediatica dei food desert è un’ondata di policy che dalle amministrazioni locali è arrivata fino al governo federale.

In Pennsylvania, da diversi anni il governo statale offre sostanziosi sconti fiscali e addirittura finanziamenti a fondo perduto alle grandi catene disponibili ad aprire un punto vendita in un food desert. A New York, Michael Bloomberg ha inventato addirittura una nuova figura – il Food Policy Coordinator – che ha organizzato una campagna per persuadere i gestori delle bodegas a vendere più prodotti freschi e di qualità. A Los Angeles, l’amministrazione comunale ha sancito una moratoria sull’apertura di nuovi fast food nei quartieri a basso reddito. Un po’ ovunque le amministrazioni comunali hanno poi abbracciato la causa del neo-tradizionalismo alimentare sponsorizzando progetti di urban farming – è ora permesso in molte città condurre attività prima interdette di allevamento e coltivazione – volti a riportare frutta e verdura nei quartieri più derelitti delle inner city.

Quando Michelle Obama, con il lancio della campagna Let’s move!, ha scelto la lotta all’obesità infantile quale causa privilegiata del suo “mandato” di First Lady, ha promesso di debellare i food desert nell’arco di sette anni. La Healthy Food Financing Initiative, proposta dall’amministrazione Obama nel 2010, stanzia 400 milioni di dollari a sostegno di una serie di interventi fra i quali molti emergono dal repertorio delle policy anti-food desert

Il coinvolgimento attivo della coppia presidenziale nella lotta ai food desert ha segnato il definitivo riconoscimento, ai vertici del potere politico, di questa nuova dimensione – alimentare e sanitaria – della segregazione urbana. Che il fatto di risiedere in un food desert influisca effettivamente (al di là di determinanti apparentemente più importanti quali appartenenza razziale, reddito e status sociale) sulle abitudini alimentari delle persone non è ancora chiaro. Intanto, l’ascesa dei food desert fornisce alla politics of food una nuova dimensione sociale (e razziale) che prima era meno evidente. Ora, forti dell’urban garden piantato da Michelle Obama nella Casa Bianca, bobos bianchi e benestanti potranno fare campagna per la nuova agricoltura – e per un diverso sistema distributivo – anche nel nome di gruppi discriminati e città abbandonate. Un nuovo passo in avanti nella lunga marcia della politics of food che, con ogni probabilità, è destinata ad andare ancora lontano.